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Può commuovere un progetto cerebrale? No, non fateci fare brutte battute, la commozione cerebrale è altra cosa… qui si sta discutendo se “Homeland” di Laurie Anderson è uno spettacolo che nasce dal cervello e arriva a toccare dentro, se insomma ce la fa ad essere di più di un interessante concept sulla cultura americana contemporanea, se riesce a diventare un’esperienza.
In effetti in certi momenti il parlato (con voce modificata dal vocoder, come se fosse un uomo a raccontare) e il cantato della Anderson tratteggiano le soggettive desolazioni umane, le vicissitudine terrene personali come il padre mancato che riappare in una specie di sogno (“Cammino accompagnata da fantasmi / cammino accompagnata da fantasmi / Mio padre con i suoi occhi di diamante / la sua voce al naturale / dice seguimi. Seguimi. / Ci vediamo vicino al lago. Ci vediamo vicino al lago. / Sarò là”) e ci si sente vicini a quei sentimenti così poeticamente espressi, mentre in altri passaggi “Homeland” grida con toni cupi gli sbagli degli States nell’epoca di Bush e si distacca da tale partecipazione sentita. E’ come una denuncia, portata avanti sempre in modo intelligente, intendiamoci, però con il messaggio che assume troppa imponenza all’interno del momento artistico.
Melodie e parole accompagnate da piccoli e minimali basi elettroniche, con Peter Scherer e Skuli Sverrisson che seguono la Anderson come fidi scudieri (grandissimi musicisti!), mentre sul finire dello spettacolo entra in scena anche Lou Reed e la sua voce dà letteralmente i brividi (“The Lost Art Of Conversation”). Dopo la prima uscita facendo zig zag tra le candele sparse sul palco, i quattro ri-escono e danno anche il contentino al pubblico velvetiano con “I’ll Be Your Mirror”.
Cuore e cervello, insomma. Che, si sa, non riescono ad andare molto d’accordo insieme. Saremo anche scontati ma noi tra i due approcci ci buttiamo a capofitto nel cuore: il cervello mulina anche troppo 24 ore al giorno tutti i giorni, ai concerti vorremmo pompare solo sangue a quel muscoletto che trascuriamo un po’ troppo spesso.
(Paolo Bardelli)