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Svegliarsi il giorno dopo con l’udito ancora monopolizzato da un fischio assordante al di sotto del quale si dipana ancora lo stesso arpeggio celestiale e infinito con cui vi siete arresi al sonno, ve lo dico seriamente, non è fastidioso come potrebbe sembrare, è la sensazione di essere schiavi di un viaggio che si temeva fosse terminato con lo spegnersi degli amplificatori.
E dire che, visto dal di fuori, in una notte piovosa romana, il Sinister Noise non sembrava proprio una base adatta all’atterraggio di una pattuglia cosmica. Eppure, appena entrati, se la aveste incontrata con lo sguardo, l’avreste riconosciuta sicuramente. Un angolo arredato con divani, tavolini e lampade, un televisore con lo schermo in verticale che trasmette Mondo Topless di Russ Meyer tra le luci soffuse, due guerrieri, Tsuyama Atsushi e Shimura Koji, stanchi e accovacciati serenamente nel loro sonno e al centro il guru Higashi Hiroshi, marziale, capelli bianchi che si fanno strada sul tessuto ruvido degli indumenti, seguiti dai peli ispidi di barba e baffi, occhiali tondi viola che schermano palpebre chiuse nel riposo sereno dei Giusti. Che si tratti di fuso orario è evidente, ma i tre sembrano provenienti, più che da altre longitudini, proprio da altri sistemi solari.
Piano piano si riempie la sala sotterranea del club, coi musicisti a vendere le copie dei loro innumerevoli album al banchetto, fino all’arrivo del leader Kawabata Makoto, chiodo e chioma riccia nera. E allora eccoli sistemarsi alla propria strumentazione, Tsuyama Atsushi al propulsore a quattro corde, Shimura Koji dietro le pelli vibranti della plancia di comando ritmico, al centro del palco Higashi Hiroshi, con un generatore di suoni siderali Roland e una chitarra dietro le spalle come la spada di un ronin. Il timone di Kawabata Makoto ha sei corde e spesso viene proteso in aria come un’antenna ricevitrice di vibrazioni cosmiche.
Parlare dei singoli brani ha ben poco senso, anche perché il gruppo ha di fatto intessuto la spirale asintotica di una jam senza inizio né fine, una progressione labirintica di rumore ed epifanie luminescenti, un dragone mitologico dalle mille teste, capace di insinuarsi e penetrare nei cervelli pulsanti (anzi: danzanti) dello sparuto pubblico presente, creando una grande nebulosa vibrante di anime incantate che ondeggiano all’unisono. Taoismo puro, ragazzi… e senza la plastica biodegradabile della new age più piatta e blandamente mercantile. L’impressione, seguendo con lo sguardo e con le orecchie (anzi: con lo sguardo delle orecchie)il magmatico farsi e disfarsi del suono, l’impressione si diceva, è stata quasi, a tratti, che Makoto e soci riuscissero ad aprire un varco dimensionale da cui lasciare defluire una musica eterna, che esiste da sempre e per sempre, avvolta nel suo segreto, restia e gelosa di manifestarsi, che solo al tocco degli invocatori/sacerdoti più abili (Barrett, Ericksson, Shields, Newcomb, Cope…) concede il dono del suo canto rivelatore. La musica vera è quella che apre della porte che non esistono, nel bene e nel male.
Ma gli Acid Mothers Temple vengono pur sempre dal Giappone e allora non è un caso che un altro particolare importante della loro esibizione sia stato il profondo senso della disciplina e dell’armonia architettonica che sottende alla legge di ogni autentica bellezza: non una nota che fosse meno che necessaria, non un accordo che non fosse suonato sotto l’ordine rigoroso di un’invisibile dettatura, in pezzi (sarebbe meglio dire poemi sonori, epiche millenarie per spartiti immaginari della mente) come “Pink lady lemonade” (recuperatela in tutti i modi sul Myspace: è come vedere tutta la propria vita, presente e futura, in un lampo, come morire e tornare per dirlo) o “The Tales of Solar Sail-Dark Stars In the Dazzling Sky” (da rimanerci secchi, direbbe il giovane Holden). Non è stato ovviamente necessario nessun tipo di bis, gli Acid Mothers Temple hanno dischiuso sulla fronte di ciascuno un piccolo terzo occhio che alla fine del concerto si è rimarginato, portando via con sé il segreto delle cose che aveva visto. Unico ricordo, un sibilo all’orecchio sinistro, da accudire e proteggere nel frastuono dei giorni successivi come una ferita preziosa, la traccia del bacio impossibile di dei sorridenti.