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Gli Oxford Collapse sono una band americana (di Brooklyn, per la precisione) che ha già pubblicato tre album a partire dal 2004, l’ultimo dei quali (quello che gli ha dato un po’ di buona reputazione nei salottini della società indie “bene”) per la Sub Pop, il che vale già una mezza tacca abbondante di voto in più nello scrutinio finale. Ed anche il nuovo “Bits” esce sempre sotto il glorioso marchio di Seattle. Il loro è un rock melodico e al contempo chitarroso e un pochino disordinato (con la camicia fuori dai jeans macchiati) che un decennio fa avremmo per l’appunto definito indie, indie in quintessenza, dalla confezione visibilmente americana. Il che vuol dire Pavement, Grandaddy, Sebadoh ma anche Dinosaur Jr, Pixies, Sonic Youth, Husker Du, volendo anche R.E.M. (anzi, a ripensarci, soprattutto R.E.M.!), con inserti un po’ vaghi (ma distintamente percepibili) di Paisley Underground tutto (qualcuno se ne ricorda ancora?).
Il disco parte con il rumore di un motore di macchina che si accende e se ne va in derapata (una fuga dopo una rapina, magari al negozio di vinili?) e in fondo è giusto e sacrosanto che sia così: questa è musica da e di corsa, suonata in maniera approssimativa, con un piglio amabilmente pressappochista e scricchiolante, come cornflakes vecchi di due mesi agitati dentro la loro scatola o come il gracchiare fuori tempo di una marmitta ingolfata. Le canzoni si assomigliano tutte e si palleggiano tra coretti che rinverdiscono improbabili spartirti surf-beachboysiani e rudimentali accordi di chitarra costruiti su pericolanti edifici di garage-punk semplicistico e balbettante. La prima parte del disco parla questo idioma sbilenco e zoppicante, almeno fino a “A Wedding” che, nelle sua nudità, è avanguardia pura, considerati i presupposti: cori accappella e tocchi di violoncello “nuziale”, con un riflusso di violino a gorgogliare i suoi risucchi morbidi sullo sfondo. Meravigliosa., soprattutto quando viene dato della “ridicola” a qualche donna che, possiamo esserne certi, se lo meritava. Dopo di che il disco tende ad andare dove vuole, trastullandosi come può, dal folk tayloriano di “Featherbeds” al country punk allegrotto (ma non troppo) di “For The Winter Coats”. Tutto molto scapigliato, malvestito, forforoso, con un po’ di moccio che cola dal naso e l’ombra di qualche crosta ancora fresca su gomiti e ginocchia, esattamente come quell’adolescente impresentabile e scontroso che ognuno di noi nel suo piccolo è stato o avrebbe voluto essere più di quanto il tempo o la voglia gli abbiano poi effettivamente concesso.
Per il resto è il solito sostanzioso e nutriente rock americano che non hai scontentato nessuno, con la crosta dura e il cuore tenero e friabile, un po’ grezzo, un po’ inguaribilmente romantico. Non cambieranno il mondo gli Oxford Collapse, ma nemmeno lo renderanno un posto peggiore, il che non è affatto poco, anzi…