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Dopo la cospicua pausa estiva decidiamo di inaugurare la nostra nuova ed ennesima stagione all’amato Circolo con l’attesa esibizione di uno dei gruppi più interessanti di questo 2008 ormai volgente al suo termine. I Black Angels (si noti la velata citazione velvetiana) sono un quintetto di Austin, Texas, attivo dal 2004, con due album di una certa risonanza alle spalle, il più recente dei quali, “Directions to see a ghost” (per la Light In The Attic), è uscito proprio quest’anno. Legati da rapporti di amicizia e reciproca stima a gruppi di culto come Brian Jonestown Massacre, Dandy Warhols, Warlocks, Black Rebel Motorcycle Club e Black Mountain, i Black Angels partono dai capisaldi della psichedelia texana (i 13th Floor Elevators dell’idolatrato Rocky Ricksson e i più criptici Red Crayola) per recuperare le frattaglie stellari dei gruppi più psichedelici dell’Inghilterra di fine anni ‘80 e inizio anni ‘90, come Spacemen 3, Spiritualized, Loop o Thee Hypnotics. Sulla carta un’operazione abbastanza fuori dai canoni predominanti del codice rock contemporaneo, così strategicamente inattuale da risultare quasi necessaria.
Il concerto si apre con l’esibizione dei Dragons Of Zynth. La formazione, costituita da tre musicisti di colore e da una bassista orientale, proviene da quell’officina musicale a ciclo continuo che è la New York di inizio millennio. La loro musica impasta materiali sonori abbastanza eterogenei, per non dire antitetici: bellissime armonie vocali intrecciano trame melodiche di soul levigato su tappeti sfilacciati di shoegaze rintronante, alternando momenti più eterei e sfuggenti ad altri di esplosioni rumoristiche, estremamente vicine a territori noise di consolidata tradizione newyorchese. Il rimando ai Tv On The Radio, soprattutto quelli del primo album, appare quasi scontato (lapidario ma risolutivo il commento del buon vecchio Lorenzo: “Che bello, i nuovi Tv On The Radio! Che brutto, i nuovi Tv On The Radio!”), ma il suono riesce a sprigionare una sua schizofrenia stilistica a tratti piacevole, anche se ancora piuttosto informe e, per larghi tratti, un po’ ineffabile, sfocata. Menzione speciale ad ogni modo per la meravigliosa “Anna Mae” (che potete gustarvi senza impegno nella loro paginetta myspace) che sembra quasi una cover di Ray Charles firmata dai My Bloody Valentine, e per “Get Off” dove Prince e i Black Dice si sposano in un connubio quantomeno curioso. Forse sentiremo parlare di loro.
Arriva il momento dei Black Angels e il folto pubblico (apprezzabile per un lunedì sera) comincia a scaldarsi. Abbastanza prevedibilmente si parte con il pezzo inaugurale dell’ultimo album, la poderosa “You On The Run”, giocata sull’intreccio seducente di ben tre chitarre, una scheggia tagliente di psichedelia in quintessenza, una spirale di suono che inghiotte i pensieri e ipnotizza, un mantra reiterato che stordisce e slega le percezioni come una poesia di Allen Ginsberg. Esecuzione praticamente perfetta. A colpire sono soprattutto due cose: il drumming gagliardo e generoso dell’affascinate batterista Stephanie Bailey (vero e proprio cuore pulsante e selvaggio della band) e il fatto che tutti i musicisti, a turno, cambino di strumento, alternandosi al basso, alla chitarre, alle tastiere, alla batteria e al tamburo. A fronte di questa incessante mutevolezza di assetto, il suono mantiene tuttavia per tutta la durata dello show una sua saldezza e una sua fondamentale impermeabilità alla variazione di passo che, in più punti, ha finito con il rasentare la monotonia. Intendiamoci: belle le progressioni ritmiche (quando ci sono state), suggestivi i paesaggi chitarristici intrisi di desolazione desertica, interessanti le orazioni profetiche tendenti all’allucinazione del barbuto cantante Alex Maas, ma alla fine l’esibizione è risultata eccessivamente statica, monocorde, in alcuni momenti anche un po’ noiosa.
Le canzoni confluiscono una nell’altra, risucchiate nelle pieghe di un magma riverberante dall’incedere lento e tortuoso, un po’ spossato, sovrapponendo le trame iridescenti delle varie “Science Killer”, “Deer-Ree-Shee” e “18 years” (unitamente ad alcuni ripescaggi del vecchio “Passover” del 2006), in un vortice sonoro che non rapisce mai del tutto ma che anzi si richiude nel suo stesso movimento come un serpente che si mangia la coda, lasciando a stomaco vuoto la nostra mente affamata di visioni deformanti e vagabondaggi nelle viscere dello spazio-tempo .
Il concerto si chiude con una imponente jam strumentale tirata forse troppo per le lunghe. La risposta del pubblico appare piuttosto positiva e soddisfatta. Noi ce ne torniamo a casa non del tutto convinti. Che dopo il concerto dei Motorpsycho la nostra verginità psichedelica sia andata definitivamente perduta?