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Gli Year Long Disaster sono un trio losangelino guidato da nientemeno che il figlio di Dave Davies dei Kinks, Daniel Davies. Attivi dal 2003, solo nel 2007 hanno dato alle stampe il loro primo long playing, arrivato da noi nel 2008. La musica dei tre è molto facile da descrivere, trattasi infatti di un filologico hard rock psichedelico tendente all’heavy metal e talvolta sporcato da qualche tocco blues, che ben saprà deliziare i palati rimasti a secco di gruppi come Wolfmother et similia. La testa del gruppo appare infatti irreversibilmente incastrata nei riff monumentali e nei grandi affreschi elettrici di band come Led Zeppelin, Blue Oyster Cult, Saxon, Uriah Heep, Black Sabbath, Iron Maiden, Ac/Dc e Judas Priest. Tutti i cultori del filone troveranno insomma di che divertirsi, anche perchè il gruppo dà sfoggio di un bagaglio tecnico tutt’altro che trascurabile, unito ad una bella scrittura e a doti compositive quasi sempre superiori alla media.
Non occorre specificare che all’interno del disco non troverete nemmeno una nota che non sia già stata sentita e risentita decine di volte negli album cruciali della vostra dorata protoadolescenza di scalmanati rockettari (se lo siete stati, ma chi non lo è stato in fondo?). Questo non costituisce ad ogni modo un particolare problema. Tutto l’ascolto si configura allora come una strenua e interminabile partita di guitar hero fino all’ultimo assolo e senza esclusione di bei colpi bassi, a cavallo tra i film di Jean-Claude Van Damme e “Commando”. La lotta inizia con le schermaglie frementi di “Per Qualche Dollaro In Più” (titolo eloquente, che dite?) e da lì in poi è tutto un incartarsi di incursioni chitarristiche, blitz e bombardamenti a tappeto di riff ogivali e batterie fumanti come mortai al napalm (se esistono). In altre parole, tutto quell’assortito armamentario di trovate, quel kit puntiglioso da perfetto assalto sonoro che non fa prigionieri e che avremmo voluto ascoltare in “Chinese Democracy”, pur sapendo benissimo che non sarebbe stato in nessun modo possibile.
E il senso della nostra segnalazione di questo album sta tutto qui, nel desiderio di mostrare come una certa idea di rock sia ancora perfettamente “suonabile” senza risultare ridicola, a dispetto dei tempi, a patto però di avere un buon controllo formale della materia sonora che arde nelle mani e sufficiente ingegno compositivo per direzionarla dove si vuole. Quello che potremmo chiamare “stile”.