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Benvenuti nella jungla, quella urbana naturalmente, che grazie a Dio nulla ha a che fare con la grottesca prosaicità di Axl Rose e soci. Dentro questo disco c’è la musica di cui la vecchia, triste e invernale Europa ha più bisogno, c’è la vita declinata in tutti i suoi casi, il groove, l’anima (traducibile, ontologicamente e fenomenologicamente, come Soul), la vischiosità geografica ed estetica di un fenomenale zibaldone di generi e, infine, tutta la forza e la cultura degli anni ’70, sintetizzata in una serie micidiale di quindici trascinanti brani.
“Darkest light: The best of” è un esemplare e considerevole documento della storia dei Lafayette, un formidabile combo di musica nera, partito da New York ed esploso nell’adottiva Parigi intorno al 1974, e già per questo motivo interpretabile come fenomeno curiosamente borderline e alternativo a quei meccanismi che restringevano (e restringono) il mercato musicale al solo centro gravitazionale americano.
Fortunatamente la moda, o ciò che si manifesta come il sistematico saccheggio e la continua rielaborazione di concetti e fenomeni passati, ogni tanto tira fuori qualcosa di davvero prezioso: così, la nuova tendenza afro-indie rock (leggi Vampire Weekend, Antibalas, Koloko, Yeasayer, Extra Golden, et cetera et cetera) e il nuovo colonialismo culturale, sedicente terzomondista, hanno reso possibile questa gradita ristampa, donandoci un bel best of, essenziale e riuscito, finemente rimasterizzato, edito da Strut (gruppo !K7). Certamente i puristi storceranno il naso riguardo a una scaletta troppo “catalogale” (il disco ci presenta i Lafayette nelle varie metamorfosi e nei differenti monicker incarnati nel corso degli anni: Lafayette Afro-Rock Band, Ice, Cripsy & Co. e Captain Dax) e mal digeriranno il feedback, grazie al quale probabilmente il cd è stato ristampato, dovuto all’utilizzo di campionamenti da parte di personaggi hype come De la Soul, Public Enemy o Jay-Z, ma il risultato finale è un’ottima compilation, imperdibile per i neofiti e divertentissima e gustosa per i cultori del genere. Quello dei Lafayette è un Funk potente, raffinatamente cafone, così come conviene in certe occasioni, ballabile e psichedelicamente coinvolgente. La noia attacca, l’Africa risponde: suoni ruvidi e magnetici (con i wah scatenati di “Voodounun”), freschissimi e funkadelici (“Congo” e “Darkest Light”), poi tremendamente recherchés e minacciosamente neri (“Hihache”), congegnati, con trasporto e tecnica, da una sezione fiati moderna e vibrante, acidissime chitarre, cascate di percussioni ossessive e sincopate e moog e rhodes diabolici, da mandare in estasi qualsiasi produttore Hip Hop e far invidia a tutta la fine generazione italiana di soundtrackers da b-movie anni ’70. Parafrasando irrispettosamente Miles Davis, qui manca solo il fantasma di Mario Merola al tamburello per avere tra le mani il disco più cool del momento. È roba da party scatenati, che se non balli o sei un cadavere o sei uno di quelli che sotto sotto avrebbe voluto che gli Afterhours vincessero Sanremo!
Sotto la sigla Ice, la musica prodotta mantiene livelli altissimi: “Time Will Tell” ha un refrain circolare di fiati, chitarre funky e ritmica Disco-pop, contrappuntata da uno spericolato flauto traverso, sorprendentemente attraente, che ricorda i vertici estetici pre-Acid Jazz dell’Herbie Hancock di “Monster”; a metà cd, “Ozan Koukle” scivola, dilatandosi in atmosfere più rilassate e trasognanti, in quei linguaggi Chill-Out e Modern Soul da lounge bar, non perdendo una goccia della propria avvincente brillantezza. “Scorpion Flower” e “A.I.E.”, registrate come Crispsy & Co., rinnovano la potenza tossica e intossicante della band, consegnandoci all’ultimo brano versione Captain Dax, follia space-Funk gravida di ritmiche e scale cromatiche del genotipo nero africano.
“Darkest Light” è un disco terapeutico e necessario, vitale con i suoi raggi di sole Soul, le sue tempeste ritmiche Afro-beat (Fela Kuti santo subito!), il suo diabolico incidere funky, così maledettamente moderno e così fuori dal tempo, i suoi colori psichedelici, le sue eleganti armonie pseudo Jazz, gli echi Juju music (onore a King Junny Ade) e i vertiginosi picchi Acid Rock, che nessun gruppo di pallidi londinesi o modaioli newyorkesi oggi potrebbe mai immaginare di raggiungere.