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“…noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri,
noi siamo diversi ma siamo uguali agli altri ma siamo diversi…”
Michele Apicella
in “Palombella Rossa” di N. Moretti (1989)
I fedeli dell’Eccentrica
Per tradizione il rock in generale – e quello indipendente in particolare – porta con sé un’etica che potremmo definire “dell’eccentrismo”: uno sguardo al mondo cioè, spostato dal centro degli eventi, che preferisce raccontare l’autenticità dei sobborghi, delle periferie, dei bassifondi. Da qui, la diffidenza innata del musicista/ascoltatore rock “underground” nei confronti di qualsiasi manifestazione e/o canale di trasmissione si proclami “ufficiale”. Intendiamoci, che in questi tempi cinici e mercificatori la musica che si ascolta possa avere una qualche influenza sul proprio modo di pensare (invece del solo, inevitabile contrario) è qualcosa che riempie il cuore. Almeno fino a quando non ci si ritrova con la mano sulla copia in vinile di “White Light/ White Heat” ad assumere gli stessi sani principi in dogmi inossidabili e a dichiarare la Guerra Santa contro quel Luogo, quell’Uomo, quella Stazione Radio…
Rino Gaetano (1978)
I fedeli della Tradizione
Talvolta il passo dall’etica alla fede è paurosamente breve. Accade spesso nel metal, ma anche le frange estremiste dell’indie non scherzano affatto. Se cercassimo piuttosto di attenerci all’unico comandamento originale (era “Rock’n’roll free your mind”, non “freeze your mind” !) allora saremmo costretti a constatare che non esistono Templi del Male ma soltanto templi malandati – e tutta la laicità del mondo non potrebbe aiutarci a dire il contrario.
Rispetto alla fiacchezza già generalizzata dell’offerta musicale, poi, Sanremo ha un’ulteriore aggravante, che chiamano (rieccoci) Tradizione: nel nome del BelCanto italico alcune delle esperienze più significative della canzone nostrana (la canzone d’autore, per dirne una) sono state tenute fuori dalla porta e a tutt’oggi decine di giovani musiche innocenti vengono ancora ferocemente affogate nelle orchestrazioni di Pippo Caruso. Da quando tutto il nostro mainstream attinge spudoratamente dal pop rock di marca statunitense, la “tradizione melodica” italiana è nient’altro che un cadavere che cammina, con l’infausto potere di rialzarne molti altri: basta gettare un occhio alla lista dei partecipanti di quest’edizione, se possibile la peggiore degli ultimi anni. E vederci anche il nome dei “nostri” Afterhours, pressato tra quelli di Al Bano e Povia, ammettiamolo, non fa una bella impressione.
Timoria (1991)
Le Parole sono importanti! La “canzone” “italiana” “oggi”
Ma…c’è un ma. Ma se le parole hanno ancora un senso, la dicitura “Festival della Canzone Italiana” in linea di principio non presupporrebbe la necessità di tutta quanta la paccottiglia “tradizionale” fin qui descritta, né tantomeno ideologie e barriere di genere: soltanto una clausola, quella di esprimersi nella forma più popolare e diffusa della musica “leggera”, la canzone. E ancora, se i numeri mantengono anch’essi un loro significato, quel 2009 posto proprio accanto al nome della kermesse sta ad indicare la volontà di fare il punto sul (trans)genere della canzone italiana fino ad oggi. E, con buona pace degli ottuagenari ancora (!) in ascolto, per capire nel bene e nel male come funziona la canzone italiana, ora come ora il nome di un Agnelli (o di un Vinicio. Di un Benvegnù. Di un Morgan…) è circa diecimila volte più significativo che non quelli dei Cari Estinti di cui sopra, dei pronipoti di Claudio Villa, dei vecchi che si ostinano a fare i giovani e (soprattutto) dei viceversa.
Bluvertigo (2001)
Una casa (in centro) per tutti
Porre il proprio inedito sanremese “Il Paese è Reale” a capo di una compilation omonima che raccoglie i nomi più illustri del nostro eterno underground è un modo diverso per far valere la propria presenza a S. Remo: ambasciatori di quel paese “altro per forza”, che le celebrazioni ufficiali si rifiutano di rappresentare, sebbene in gran parte dei casi i suoi abitanti altro non facciano se non semplici “canzoni”, appunto. Se si tornasse a vedere il palco dell’Ariston, la tv e le radio per quello che dovrebbero essere (grandi passerelle democratiche senza setacci stilistico-ideologici) le pesanti armature dei rispettivi tradizionalismi franerebbero finalmente a terra e le porte di ghetti e autoghetti si riaprirebbero. Il centro dell’Impero non sarebbe un posto poi così disgustoso se a poterne prendere cittadinanza fossero tutti coloro che hanno il diritto di transitarvi e non solo e sempre gli aristocratici che ci sono nati e chiedono di restarci ad oltranza, sventolando qualche presunto statuto divino.
Bluvertigo (2001)
Pre-conclusioni: il teorema di Will il coyote
Prima di dire chi ha mangiato chi in questa storia tra Periferie e Centrocittà, sarà il caso di aspettare e sentire il risultato. Anche perché nel frattempo c’è già stato chi si è affrettato a dare l’ultimo prezzo: di fronte al reato di alto tradimento alla causa, compiuto e reiterato (prima la Universal, poi le radio”commerciali”, ora questo!), l’Indintegralista si spreca in condanne d’esilio e spertica profezie di crolli imminenti. A lui possiamo soltanto consigliare qualche grammo di laicità da assumere dopo i pasti, che, oltre alle sue incrollabili teorie della (o delle) Gravità, gli faccia prendere in considerazione anche il sempre ingiustamente trascurato Teorema di Will il Coyote. Tanto per cambiare, sarebbe bello che per una volta non si segasse via l’instabile sperone a cui si appiglia l’ultimo arrivato nel vano tentativo di ritagliarsi un proprio posto, ma che invece fosse tutta quanta la montagna a cascar giù, sotto l’insostenibile peso di una tradizione sempre più ingombrante.
Cristina Donà + Nada (2004)
(Simone Dotto)