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Il neofita imprudente che volesse buttare un orecchio alle 200 Greatest Songs of the 1960s stilate da Pitchfork.com si sorprenderebbe a (ri)conoscere molti suoni in questa pur amplissima gamma, magari senza avere mai ascoltato direttamente nessuna delle canzoni in lista. Il discorso vale sia per l’indie kid che per il giovane consumatore “generalista”: le risacche marca sixties hanno invaso indifferentemente il settore pop e quello indipendente e da entrambi sono state fagocitate e rimesse in scena, anche se con criteri diversi.
L’apparato discografico che fa da contorno agli artisti pop guarda ai sessanta e alle sue star per prendere spunto dai dispositivi che ne fecero la fortuna e poterli ricostruire sulle misure di una Beyoncè, o della Winehouse di turno: si riprende suono e immagine dai bei tempi andati per poi “far finta” che nessuna Etta James sia mai esistita. Al contrario l’Indie conosce i suoi polli più colti, e sa che sarebbe imperdonabile tentare di fregarli offrendo loro come “nuovo” qualcosa che ha più di quarant’anni sul groppone: per questo fa prima a presentare il revival come tale, dando carta bianca a tutti gli eccessi del caso e rischiando anche un vero e proprio feticismo da parte dei soliti fanatici del vintage.
I fiori all’occhiello di “Pet Sounds” e Sgt. Pepper’s….” fanno spesso dimenticare quanto il sostrato sonoro dal quale si stagliavano fosse in realtà omologato: il capolavoro dei Beach boys come quello beatlesiano sono due geniali bigini di quello che ai tempi era noto come “bubblegum pop”, pop per masticacicche. Paradossalmente, l’indie odierno provvede al recupero e alla conservazione di ciò che invece era stato inventato per essere “masticato e sputato”.
Spiace scaricare il peso di queste considerazioni sulle spalle di esordienti incolpevoli come i Superpartner, quando c’è una ben più ampia cerchia di colleghi anglosassoni (o italiani anglofili) che condivide gli stessi precetti. Senza contare che l’album di debutto “Love Hotel” assolve egregiamente a tutti i doveri che si prepone: ricopiare con la carta carbone gli intrecci vocali sessantini tra un registro soft-maschile e i sognanti toni femminili, ricreare quel biondo impasto sonoro che dava al cosiddetto dreamy pop un tocco di magia e, nel farlo, prestare attenzione ai minimi particolari, arrivando addirittura ad ingiallire ad arte l’immagine di copertina, per farla assomigliare ad una vecchia foto consumata dal tempo. Qui sta il punto: quando l’involucro conta quanto il contenuto tutto ciò non ha nemmeno più nulla a che fare con il revival, perché qui non c’è proprio un bel niente che “rivive”. Questo è passato per il passato, in una parola, Antiquariato. Per queste ragioni la migliore sentenza che si possa emettere riguardo a “Love Hotel” è dire che “suona proprio come un disco del ’67!”: e per dirlo lo diciamo anche, ma non siamo sicuri che si tratti di un attestato di merito.