Share This Article
I Jennifer Gentle cominciano a fare proseliti, questo è certo. Tra un Samuel Katarro e una Beatrice Antolini, non è dunque da escludere (anzi: è da auspicare) che anche gli interessantissimi Unmade Bed riescano a ritagliarsi un loro piccolo grande spazio. Il gruppo, facente capo al fiorentino Lorenzo Gambacorta, propone infatti nel suo esordio (freschissimo di stampa per Seahorse) un’instabile ipotesi di psichedelia ibrida, cantata da una voce bambinesca e sibilante di barrettiana memoria e attraversata da evocative digressioni strumentali in equilibrio tra post rock e ambient etereo. L’impressione più netta è quella di ascoltare una rilettura in chiave ludico-visionaria del canzoniere di Pavement e Grandaddy: melodie sghembe e smozzicate vengono fatte girare e contorcere su sé stesse in un teatrino espressionista dai contorni fumosi e balbettanti, capace di alternare lampi di gioia circense (che hanno quasi il passo sgambettante di certe invenzioni tardo-caposselliane) a improvvise parentesi sonore in cui a dominare è soprattutto l’umore nevoso e glaciale di Mum e Sigur Ros.
Più che le singole composizioni (del resto abbastanza simili e stilisticamente omogenee) conta soprattutto l’affresco mirabilmente descrittivo, l’atmosfera rarefatta e riverberante della musica, che ha il sapore di un letto per l’appunto disfatto, ancora impregnato dei tepori onirici alitati dalla notte sul nostro cuscino gualcito. Canzoni come “The Gently Hysteric Cat” o “Rainbow Girl” sembrano favolette carrolliane (nel senso di Alice), accarezzate dalle visioni sfasate e fluttuanti di un piccolo impero del sonno che rimane impigliato nei primi barlumi stropicciati del risveglio mattutino.
Da questa prospettiva il disco funziona abbastanza bene, convogliando un flusso pastoso e gorgogliante di visioni lenticolari e illusioni di vario tipo, forse un po’ prolisso e non sempre godibile allo stesso livello, ma quasi sempre ben congegnato dal punto di vista delle soluzioni adottate in sede di arrangiamento e tessitura strumentale. La cosa che al gruppo riesce meglio sono senz’altro le progressioni e i crescendo, in cui trame sonore dal retrogusto cinematico riescono a stratificarsi e a produrre un senso di profondità spaziale (a tratti di vero e proprio sprofondamento “morbido”) molto piacevole all’orecchio.
“Loom” costituisce, tirando un po’ le somme, un buon punto di partenza e un biglietto da visita capace di catturare l’interesse e la curiosità di un pubblico trasversale e, proprio per questo, non trascurabile. Fatte le dovute proporzioni del caso, in prospettiva futura, potremmo trovarci di fronte ad una potenziale risposta italiana agli Animal Collective.