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Lo spiritello maligno che dimora in ogni critico o appassionato di musica che si consideri obiettivo, si fa in quattro per trovare almeno un difetto, anche il più futile, persino nelle opere più riuscite. Nel caso del disco d’esordio dei Red Basica aveva escogitato il cavillo dell’undicesima traccia; gli era parso, insomma, che l’album potesse tranquillamente chiudersi, in modo usuale, con la decima traccia, “Underblood cave-in/Don’t think about”, un pezzo teso e decisamente intenso. Ma fortunatemente lo spiritello talvolta rinsavisce: “Hi Mole” non è un sovrabbondate corpo estraneo, bensì l’ennesimo indizio di asimmetria canterburiana in questo disco sorprendente.
Asimmetria, dunque: la costante di “Les premiers plaisirs”. Asimmetrico come i Soft Machine prima maniera o il Kevin Ayers di “Joy Of A Toy”, nel segno di una libertà grammaticale che diventa stile preciso, annullando di fatto una chiara e netta percezione dei diversi influssi: una dimostrazione di come ci si possa riallacciare al passato non per ripeterne pedissequamente gli insegnamenti ma per rielaborarli, svilupparli e contaminarli: farli rivivere passandoli al setaccio di una cultura musicale anche molto differente dal modello. In questo caso una cultura robustamente latina, grazie alla quale, come attraverso una lente, la band italiana convoglia un po’ di sole mediterraneo a diradare le brume britanniche. Pressoché ogni particolare rimanda, più o meno direttamente, alla scuola di Canterbury: dalla strumentazione, che sembra quasi unirne idealmente la corrente più jazz e seriosa con quella progressiva, alla strutturazione dei brani, passando per la vocalità romantica, calda e un po’ sfuggente di Mirko Onofrio, autore di buona parte della musica e dei testi. A basso (Giuseppe Sergi), batteria (Massimo Palermo) e chitarre (Massimo Garritano) si affiancano prepotentemente i fiati di Onofrio (flauti, sax tenore e alto), Gianfranco De Franco (sax alto e soprano, clarinetto) e Giuseppe Oliveto (trombone), che a sorpresa si emancipano sia dal jazz-rock sia dall’etno-folk, percorrendo una terza via, più eclettica e personale, in cui assai di rado capita di imbattersi.
L’intro ironica e festosa di “Gay Pride”, una sorta di trascinante fanfara progressiva, è una bella risposta “sudista”, a distanza di trent’anni giusti, alla ayersiana “Joy Of A Toy Continued” che apre lo splendido primo album dell’eccentrico ed esotico britannico. L’intimistica e chiaroscurata “Free Not To Believe” precede un pezzo vigoroso come “A sentimental crap”, un asciutto prog pressoché perfetto nel canto irregolare, quasi a singhiozzo, che pare aprirsi ad una serena melodia per poi ritrarsi come in un guscio; nel falso finale bandistico e fracassone che sfocia in una tiratissima e potente coda strumentale scandita dalle note secche e perentorie del trombone.
A questo punto ci accolgono le sonorità liquide di “Like Geppetto In The Whale/Ebony Contraceptive”, bipartita secondo un tipico vezzo canterburiano ed evocativa quanto basta: per equilibrio e leggerezza, per il frullare del flauto e l’imprevedibilità del canto da confrontare con Hatfield & The North. L’assolo di clarinetto che, con netta cesura ed effetto straniante, costituisce la seconda parte del brano, è in realtà una vera e propria introduzione della strumentale “Les premiers plaisirs de Mimosa”, che dall’iniziale sarabanda dagli influssi balcanici trapassa in una straniante coda piena di giochetti e frammenti in libertà di sapore minimalista e dada, fra brusii, rumori e citazioni classiche (Liszt, rapsodia ungherese n. 2). In uno con la title track, “Seed” rappresenta forse l’autentico manifesto della ordinata asimmetria di Red Basica: un inizio talmente etnico da far pensare che qualcuno ci abbia cambiato il disco sotto il naso, passaggi melodici di sax che aprono la strada ad un vocalizzo wyattiano, un ritorno alla ritmica etnica filtrata dagli ingranaggi di una Morbida Macchina.
“To Friendship” e “Who Are Your Fancy Friends” costituiscono un dittico intimista, caratterizzato dall’accompagnamento di trombone: elegante la prima nell’uso del clarinetto in apertura, nei vocalizzi e recitativi che avrebbero figurato bene persino in “Rock Bottom”. “Butterflyin’ High” è uno strumentale con due anime: una più rock e scritta, l’altra, incastonata nella prima, più free, improvvisativa e impressionista. Segue la già citata “Underblood…”, seconda bipartizione progressiva e picco postmoderno dell’album nella progressione drammatica della prima sezione, rivisitazione di consimili strutture del prog d’annata. Chiude la dedica di “Hi Mole”, atto d’amore per tutto uno stile musicale qui rappresentato da uno dei suoi totem più celebri, la talpa: ritmo e melodia rilassati e malinconici, sul filo dell’elegia, sottili tracce di psichedelia e un nostalgico looping di Garritano nel finale.
Per arrivare al cuore la musica di qualità passa sempre dalla porta del cervello.