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Tre anni fa l’enigmatica creatura Bat For Lashes era effettivamente avvolta da una coltre di mistero. L’ottimo “Fur And Gold” era uscito solo in Gran Bretagna, sarebbe arrivato negli USA e, per motivi di distribuzione, al resto dell’Europa solo un anno dopo. Mentre si rincorrevano voci di autorevoli apprezzamenti, da Thom Yorke a Bjork passando per Devendra Banhart e Jarvis, poco si sapeva sui componenti del progetto nato dalla fervida mente della conturbante Natasha Khan. Un esordio come non se ne sentivano da un pezzo. Noi l’avevamo segnalato nel disinteresse e nel silenzio generale, rotto magicamente qualche mese dopo con l’onorevole chiamata come supporting act nella leg europea dell’“In Rainbows” tour. Chiamata che oltre a farle guadagnare notorietà e nuovi apprezzamenti, non ha deluso le attese, come dimostrato nella doppia data milanese dei Radiohead.
Fu così, insomma, che ci si accorse di loro. Sì, di loro, perché, senza nulla togliere a Charlotte Hatherley ex-Ash e Ben Cristopher che la seguono dal vivo, l’eccentrica polistrumentista anglo-pakistana nel frattempo si è costruita anche un alter-ego. L’ha chiamato Pearl e rappresenta il suo lato più terreno, descritto come appariscente, edonista e addirittura biondo. Il che fa da contraltare a quell’anima tormentata da figlia degli elementi naturali che si era creata nelle torbide atmosfere dell’esordio. Due anime, o due soli in tema con il titolo di questo secondo album.
“Glass” si era già fatta notare live e apre il disco in una sorta di ibrido tra le due anime. C’è quel fascino torbido e ancestrale, ma gli arrangiamenti dalla loro hanno un tocco di modernità in una tribalità che sembra il frutto diretto del suo peregrinare tra Brighton e gli USA. Dalla collaborazione “esplorativa” coi Gang Gang Dance, nome di punta della nuova scena sperimentale newyorkese, a quella poi effettivamente concretizzatasi su disco con gli Yeasayer, ineffabile quartetto altrettanto psichedelico. Stesso discorso per “Sleep Alone”, un brano alla Bat For Lashes ma arricchito da loop e espedienti sintetici che rendono più urbano il suono caratterizzato dal peculiare timbro della Khan. Così la mistica “Peace Of Mind” sembra un cameo di PJ Harvey in un qualsiasi album della sterminata schiera di psych-revivalist post-undicisettembre di cui sopra.
In tutto e per tutto riconducibile invece al suo doppelganger svampito il singolo “Daniel”, un pezzo electro figlio della Björk più esuberante quanto degli anni ’80 del synth-pop. Pur non raggiungendo i picchi qualitativi dei due must d’esordio – “Horse And I” e “What’s A Girl To Do” – si presenta come brano più efficace e di impatto del quale non si potrebbe escludere a-priori un certo seguito nei dancefloor, magari sottoforma di remix. Si fa fatica a credere di trovarsi davanti a Bat For Lashes anche in “Pearl’s Dream” che come preannuncia il titolo è l’esplosione del suo alter-ego. Venature electro ancora più marcate, persino il modo di cantare è meno fuori dal tempo rispetto agli avvolgenti vocalizzi cui ci aveva abituato. In un ideale parallelismo con un solista britannico maschile che si avvicina alla sua duttilità e alla fruttuosa coesistenza di venature vintage e suoni attuali, Natasha nei panni di Pearl, ricorda i momenti più sbarazzini ed elettronici del suo collega Patrick Wolf.
Meno effervescente, ma ugualmente figlia delle sonorità della musa islandese, “Siren Song” si mette in bella mostra per il suo crescendo orchestrale che si scontra angosciante in rumori di fondo industriali.
Torna poi alla ribalta la Natasha autentica dell’esordio nelle dolenti note di “Moon And Moon” e soprattutto in “Good Love”, dimostrando una vena ancora prolifica nei suoi spunti melodici. Se in “Travelling Woman” si misura in una ballad al piano lineare ma mai rassicurante nella tradizione di Kate Bush e Tori Amos, il teatrale requiem di chiusura, “The Big Sleep”, è esaltato dall’inimitabile voce di Scott Walker più che dall’effettiva sostanza del brano.
È altrove che vanno cercati gli spunti più interessanti. Su tutti, in “Two Planets” con Natasha e Pearl che si sganciano da ogni ispirazione e derivazione più diretta per un brano che ne sintetizza la multiforme proposta musicale. Voce penetrante, sottofondi da rito pagano, arrangiamento sintetico e una libertà compositiva da degna risposta a Thom Yorke e soci.
Al di là della svolta fashion testimoniata da copertina e videoclip e di questa preannunciata ambivalenza tra due anime distinte, i due mondi di Natasha si rincorrono finendo per sfiorarsi, respingersi, scontrarsi come nel precedente album. Con la misteriosa galassia Bat For Lashes che si arricchisce però nel suo mondo contemporaneo di un tocco metropolitano che rinnova il magnetico talento di Natasha Khan. Senza di fatto snaturare quella contraddittoria e affascinante entità chiamata Bat For Lashes.
Non ce ne voglia Pearl…