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Un’overdose d’amore.
Un’overdose anche per me.
Torna dopo sette anni il crooner dalla faccia d’attore, il sexy pugile sentimentale, il giovane Elvis dal cuore infranto. Per molti, più semplicemente, quello di “Wicked Game”, languido ballatone supercool che – sebbene pubblicato oltre un anno prima – come un fulmine schizza ai primi posti delle classifiche dopo essere stato incluso da David Lynch nel suo “Wild at Heart” del 1990. Trampolino di lancio più che meritato visto che Isaak se le cantava e se le suonava già da un bel pezzo, anche se con più modesti successi di vendite. Di lì in poi una carriera che, brillantemente divisa fra musica, cinema e televisione, può ben dirsi fortunata per il nostro “lucky man”, ormai star televisiva e attualmente alle prese con un talk show tutto suo su Biography Channel che verosimilmente garantirà una maggiore visibilità anche al nuovo lavoro.
Così come per l’aspetto fisico da eterno giovinotto, in realtà, anche per quanto riguarda la sua musica poco sembra davvero cambiare col passare degli anni perché la rassicurante quanto vincente proposta del californiano prevede in fondo la solita maledettissima formula di sempre, un po’ come se il Roy Orbison più teatrale conversasse di spaghetti western col Presley in licenza militare dentro un cocktail lounge di Las Vegas mentre sullo sfondo campeggia un dipinto di Edward Hopper. Ecco. Il tutto racchiuso dentro una logica della retorica amorosa che ad esser buoni funziona normalmente una volta al mille ma che nei pezzi di Isaak, chissà perché, finisce quasi sempre per risultare credibile e sincera, nonostante l’eterno vivacchiare ai limiti del melenso. E difatti neanche stavolta, a quanto sembra, assistiamo a rivoluzioni o particolari restyling.
Il falsetto assassino torna così a mietere vittime nella ballata iniziale di “Cheater’s Town” così come nel pentimento strappalacrime di “We Let Her Down”, ed è già una faccenda di sguardi intensi, ricordi, speranze. Di piccoli cuori di tenebra. Una voce suadente che di lì a un attimo si distende nella timbrica potente e pulita della tormentata “You Don’t Cry Like I Do”, perché la donna che l’ha abbandonato non riesce neanche a piangere come invece fa lui, a provare gli stessi sentimenti che ora affliggono e straziano di dolore il suo generoso muscolo cardiaco. Ottimista quanto basta, il country & western “We Got Tomorrow” precede in marcetta il romantico duetto con Trisha Yearwood (“Breaking Apart”) dove Chris implora il ritorno dell’amata, maledice le miglia che li separano, piange di brutto e pensa alla sua bimba, la riabbraccia infine, la sente sussurrare poche parole ma stavolta son quelle giuste (“Baby Baby”). Colpa, come sempre, di quella dannatissima “pretty little word” che dalle nostre parti fa rima con cuore. Sì perché con tutti quegli heart e quei baby prodigalmente spesi nel corso del disco, ci verrebbero fuori almeno un paio di edizioni del Festival di Sanremo. Roba che, a volerli contare tutti, si rischierebbe di superare i famosi 182 fuck pronunciati da Tony Montana.
Il fatto è che questo sfacciato di Chris Isaak, grazie al cielo, non è Biagio Antonacci e la nostra, semmai, finisce con l’essere una piacevole sopportazione. Lui ancora la ama, ci tiene a ribadire che è vero e noi gli crediamo, perbacco, perché quest’uomo è capace di smarrire il cuore alla numero 8 (“I Lose My Heart” nel duetto smielato con Michelle Branch) e di recuperarlo prodigiosamente dopo appena un quarto d’ora, in tempo per offrirlo in dono alla sua adorata nelle atmosfere retrò della swingante “Take My Heart”, utile forse per capire quei punti di contatto con l’immaginario lynchiano della provincia americana anni ’50. Arriva pure il momento del rockabilly nella corale e gagliarda “Mr. Lonely Man” e si continua a pestare il piede nel rockaccio antemico di “Best I Ever Had” che è sì la più trascinante del lotto, ma è soprattutto quella in cui si ode distinto un “everything’s ok” che onestamente ci fa tirare un sospiro di sollievo dopo che abbiamo visto un Isaak ancora triste e solitario a soffrire pene d’amore sotto la calura estiva di “Summer Holiday”. Senza neanche una birra, per giunta.
Gioia e tormento, emozione e struggimento, smarrimento e redenzione: questo, del resto, sembra essere il suo mondo, quel “Big Wide Wonderful World” cantato in chiusura nella blueseggiante fanfara da big band che chiude festosamente il sipario sopra un disco ruffianissimo e senza eccessive pretese ma ancora una volta riuscito ed equilibrato, che se ha un pregio è proprio quello della semplicità, della genuinità e della passione.
“We’re Gonna Keep on Swingin’”.
Chris Isaak è uno di quelli che suonerà all’infinito la stessa canzone perché nessuno in realtà ne avrà mai abbastanza.