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Un po’ di storia. E’ il 2000, gli Scisma si sono appena separati, al loro apice, in silenzio. Paolo Benvegnù passa uno dei periodi più difficili della sua vita («O scrivevo, o mi ubriacavo», dirà poi in occasione del “Last Waltz” della sua band, ricordando quei momenti), e tocca agli amici dargli una mano.
Tra questi, c’è Marco Parente, che lo coinvolge nelle session del suo “Trasparente”, uscito due anni dopo. Alcune (bellissime) canzoni finiscono in quello che è l’album più attento alla forma-canzone del cantautore fiorentino, altre rimangono a riposare nei cassetti, per anni.
“Proiettili Buoni” nasce così, semplicemente riaprendo quei cassetti e rimescolando le carte. La band è straordinaria, o almeno lo è per chi ha imparato a conoscere il rock attraverso le vicende luminose dell’indie italiano di quegli anni: Marco Parente e Paolo Benvegnù, assieme, oltre alla batteria di Andrea Franchi e al basso di Gionni Dall’Orto!
Eppure.
Eppure, qualcosa non torna. Registrato dal vivo, senza sovraincisioni, le canzoni vanno a cercare ciò che Parente e Benvegnù non hanno quasi mai trovato: l’immediatezza.
La sensazione è quella di un generale cut-up: le canzoni che furono di “Trasparente” sembrano tagliate in piccole strisce e rimescolate, disorientano e riaprono i ricordi.
Allo stesso modo, gli stili dei due cantautori si sono intrecciati a ciò che erano, e a ciò che stanno diventando: qua e là compaiono il free-form poetico dell’ultimo Parente, gli intrichi jazz già ascoltati ne “Le labbra” di Benvegnù.
Ma è tutto troppo sporco, confuso, quasi frettoloso. Viene da chiedersi cosa avrebbe potuto essere questo disco se i loro responsabili se ne fossero presi più cura.
Restano brandelli di “Poesia cieca” (il brano più bello del disco), ma troppo rapidi, grezzi. Quasi “Proiettili buoni” fosse solo un divertissement a cui non dare troppo peso, un atto dovuto per chiudere il cassetto dei ricordi.