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Ritmo e voce. Non c’è poi molto altro. E’ allo spareggio tra queste due componenti fondamentali viene affidato il destino di praticamente qualsiasi brano di musica pop, quando tocca decidere se il neonato sarà un esemplare di belcanto o un martellone da dancefloor, una ballata struggente o un fiero rocchettone marziale…
Soltanto un anno fa, alla prova d’esordio, il qui presente duo era sceso fin dalla Svezia a spiegarcelo, e aveva anche avuto l’ardire di servirci la ricetta così com’era, nuda e cruda sul piatto di portata. Ne erano venute fuori dodici canzoni – quelle che compongono “Heartcore” – straordinariamente orecchiabili e pronte anche ad un confronto con le frequenze radio che sfidasse il loro corredo minimale. Tanta essenzialità da tirare in ballo una particolare attitudine “punk”, non fosse che entrambi i musicisti sono virtuosi dichiarati, di accreditata formazione accademica: Andreas Werliin, un fenomeno dei tamburi, e la moglie Mariam Wallentin, con quel portento di voce che si ritrova, bella e autosufficiente come fu quella di Janis Joplin in “Mercedes Benz”.
“The Snake”, a differenza del capitolo che l’ha preceduto, non è un disco “a tesi” e chi lo firma non deve più dimostrare di saper scrivere canzoni: pertanto le filastrocche pop si riducono ad un paio di episodi (“Chain of Steel” e la conclusiva, romantica “My Heart”). Il resto va dritto alla sorgente, a scovare gli anfratti più radicali nel DNA musicale del duo: dopo il preludio vocale di “Island” l’ugola di Mariam si diverte a scartabellare nel profondo dei suoi registri black e poi subito a tornare in superficie. Si passa con disinvoltura dai toni tribaleggianti di “There is No Light” a qualche più arrischiato passaggio attraverso i modulatori elettronici che avvicina un paragone, scontato ma quasi inevitabile, con la Bjork glaciale di “Earth Intruders”.
Gli strumenti tradizionali e non percussivi continuano ad essere marginali ma, per quanto lei lo lusinghi (“…You see I’m lost without your rhythm”) è evidente lo sforzo di Andreas di essere un marito meno invadente nell’accompagnare le evoluzioni vocali della consorte. Il suo tambureggiare ne esce più versatile e modulato, sebbene i momenti migliori restano ancora quelli dove le pelli tuonano (primitivissima, “Places” finisce di diritto nella playlist del mese).
“La gente viene a sentirci e poi parla e scrive tirando in ballo i riferimenti più disparati. E’ come se se chi ci ascolta prendesse la musica che più gli piace e la applicasse ai nostri pezzi”. Si è già parlato di “world” per etichettare il sound scarno dei Wildbirds, ma forse sarebbe stato meglio inventarsi un “neo roots” o qualche neologismo del genere: in fin dei conti è qui, come in pochi altri dischi al momento, che trovate le radici di tutta quanta la musica che già state ascoltando.