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Arrivano all’esordio i quattro imberbi giovinetti provenienti dal Kent, già fattisi notare l’anno passato dalle orecchie più accorte con qualche ep a firma It Hugs Back. Fregiati dall’araldica di alto lignaggio di un’etichetta a suo modo seminale come la 4AD di Ivo Watts-Russell, gli It Hugs Back hanno tutto l’aria di poter essere considerati una piccola enciclopedia ambulante dei suoni e dei gruppi che di quell’etichetta hanno scritto le pagine musicalmente più significative, ad uso e consumo delle generazioni più giovani. Nel loro esordio si ritrova infatti quell’impasto di dream pop e shoegaze che a livelli diversi definì l’irripetibile parabola estetica di band come Cocteau Twins, Lush, Pale Saints e Modern English, unitamente a quella di altre formazioni vicine per attitudine sonora e retroterra culturale, quali Slowdive, Chapterhouse, Moose o Curve.
Se una cosa riesce ottimamente a questo giovane gruppo essa è senz’altro, e suoni come un sincero complimento, quella di mandarvi tutti a dormire. Le composizioni sembrano infatti assecondare i contorni sfumati di filastrocche o ninnenanne impastate di sonno che voci di madri lontane (forse mai esistite) bisbigliano in punta di lingua al vostro orecchio come in un lento e intorpidito rimuginìo. Gli sfondi sonori vengono drappeggiati con spessi e diafani tendaggi di chitarre in sospensione acquatica che si gonfiano come meduse traslucide per abbandonarsi ad una corrente senza direzione. Musiche da posizione orizzontale che raccontano un dormiveglia felpato su cui sdraiare il pensiero e iniziare ad immaginare. Pezzi come “Q”, “Soon” (che racconta il suo eterno non iniziare mai) o la bellissima “Forgotten Song” sanno infatti tessere una piccola bolla placentare di sonorità calde e granulose con cui fasciarsi la testa, un’apnea stordente di visioni indefinite, un incerto balbettio, una tremolante esitazione tra suono e senso.
Certo, il disco si configura come un ascolto pienamente godibile solo in determinati contesti o momenti della giornata e alla lunga può anche rivelarsi piuttosto statico e anche un po’ narcotizzante nello strenuo perseverare in scelte stilistiche fin troppo insistite. Del resto la band gioca sin dall’inizio a carte scoperte, riproponendo gli stilemi di una tradizione consolidata e ben localizzabile, mettendoci però una certa freschezza e discrete qualità di scrittura. Tutto questo fa sì che “Inside Your Guitar” si presenti come un esordio molto promettente. Saranno (forse) famosi.