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L’”altra” Scozia torna a far parlare di sé e lo fa attraverso la sua etichetta storicamente più importante e rappresentativa. Il fatto interessante è che paradossalmente i Phantom Band non hanno una parentela poi così stretta con il “suono” storico targato Chemikal Underground (quello dei vari Arab Strap e Mogwai, per intenderci). A sentirli, non li diresti nemmeno scozzesi di Glasgow, prodotti dall’ex Delgados Paul Savage per giunta. Ciò accade forse perché questa banda fantasma, stando a quanto dice, ha in sostanza due grandi passioni / ossessioni musicali: Captain Beefheart e il kraut rock. Il primo referente è percepibile più che altro come attitudine pazzoide e schizofrenica, per quanto riguarda invece il versante krautedelico, bè, in “Checkmate Savage” di roba strana e apparentemente inclassificabile ce n’è a bizzeffe. Il campionario di stili e tappezzerie sonore è infatti ben nutrito, addirittura sovrabbondante. Ad ogni modo i pezzi più interessanti sono quelli dalla struttura più ampia e complessa, nei quali si precisa più distintamente la grande influenza esercitata sulla band da gruppi come Can e Neu!. Composizioni come “Burial Sounds” o “Crocodile” (con ogni probabilità il capolavoro dell’album) si presentano all’orecchio come cavalcate potenzialmente infinite di spettrali valchirie cosmiche dal passo marziale, che forse vale la pena di seguire. Che cos’è infatti il kraut rock? Una forma di prog deprivata della retorica del virtuosismo dotto e con un mondo di brutture da lasciarsi alle spalle attraverso la potenza della visione, sembra rispondere un pezzo come “Throwing Bones” (quantomeno curioso il suo epilogo gospel).
Tuttavia la band non lavora in maniera esclusiva in questa direzione, mostrando una cerca predilezione per un trasformismo stilistico piuttosto promiscuo, capace di manipolare la materia musicale con una spregiudicatezza degna di un Beck o della Beta Band. Tanto che quasi ogni canzone sembra scritta e performata da un gruppo diverso. Almeno tre episodi nuotano in placidi stagni di country-folk elettrico appena increspato, in cui si riflettono le sagome sfuggenti di Bonnie “Prince” Billy, Wilco o Black Heart Procession (stiamo parlando di “Island”, per altro bellissima, di “Folk Song Oblivion” e “Halfhound”). In altri momenti si finisce con l’urtare contro l’algida geometria di sinth in progressione esponenziale che fanno venire in mente Kraftwerk, Cabaret Voltaire e Suicide (l’iniziale “The Hawling” o “Left Hand Wave”). Ed è proprio questo il punto: l’eccessivo nomadismo di una band dallo stile “apolide” che chiede asilo politico in regioni musicali troppo diverse l’una dall’altra per potersi poi ricomporre in un organismo sufficientemente armonioso e coerente. L’idea che un lavoro come “Checkmate Savage” lascia alla fine dell’ascolto è esattamente quella di un hard disc su cui è caduta dell’acqua o, se si preferisce, dell’archivio sonoro di un i-pod andato in frantumi: centinaia di file musicali aggrovigliati in una poltiglia di suoni che si fondono orgiasticamente l’uno dentro l’altro, senza obbedire ad alcun tipo di architettura concettuale che non sia quella della libera divagazione senza oggetto. Il risultato che ne deriva è tanto travolgente quanto irrimediabilmente vago e parziale. La speranza è dunque che il gruppo nel prossimo album riesca a convogliare la mole di (spesso ottime) idee che gli costipa il cervello in un‘opera dai tratti meno indecisi.