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Finalmente tornano a pubblicare nuova musica i Veils, formazione neozelandese dall’organico assai variabile, attualmente comprendente Sophia Burn, Dan Raishbrook e Henning Dietz, con il cantante e compositore Finn Andrews (come molti sanno figlio di Barry Andrews, per un certo periodo tastierista degli XTC e poi collaboratore occasionale di Brian Eno, Iggy Pop e Robert Fripp) a fare da baricentro gravitazionale più o meno stabile del gruppo. I Veils hanno finora faticato non poco a trovare un loro equilibrio, disperdendo le proprie ambizioni in due album in bilico tra tormento ed estasi, stritolati tra picchi di purezza disarmante e momenti di più torbido spaesamento e apatia che non hanno permesso alla band di catturare sulla pagina della loro musica quell’idea di bellezza ferita che avevano in testa e che in più occasioni ha finito con il travolgerli.
Il nuovo “Sun Gangs” purtroppo non sovverte appieno questa sensazione, alternando composizioni di una bellezza quasi insultante a brani decisamente più modesti, se non sbiaditi. È una collezione piuttosto eterogenea, un lunatico bouquet di colori e odori differenti, una divagazione di suoni che vanno a posarsi in luoghi non sempre così vicini. Se l’inizio, la ballata “Sit Down By The Fire”, è imperioso, anzi monumentale, un brivido che formicola sulla schiena, da inserire tra le realizzazioni più persuasive e riuscite di Andrews, già la seconda “Sun Gangs” si rattrappisce in un folk bisbigliato come una preghiera farfugliata a mezza bocca. E un po’ questo sarà il leit motiv dell’album, una trama di pieni e vuoti in alternanza, fuochi elettrici e ceneri acustiche. Le fonti del gruppo sono disparate e di alto lignaggio, da Red House Painters, Low e American Music Club fino a Tim Buckley e John Martyn, attraverso una musica tutta giocata sul filo lirico di emozioni senza filtro il cui sovraccarico non riesce tuttavia a ricomporsi sempre in una costruzione del tutto compiuta e leggibile, in un “canto” sicuro e continuo. La sulfurea “Larkspur” si addentra nelle regioni ferali di un inconscio ombroso e regressivo, graffiato da urli di chitarre persecutorie e senza pace, “The Letter” è una delle migliori canzoni che gruppi come Starsailor e Coldplay non hanno scritto e forse non scriveranno mai, “It Hits Deep”, una goccia di acido cloridrico sul cuore. Eppure l’album sprofonda in altri pezzi che cercano di giocare con sperimentazioni più ardite che allontanano la scrittura del gruppo dalla sua originaria nudità. Pezzi come “Killed By The Boom” non convincono, più vicini forse alla poetica nevrotica dei Placebo o dei Muse, e allo stesso modo “Three Sisters”, un’altra occasione sprecata, o “Scarecrow”, a tratti troppo “vuota”.
Alla fine e nonostante tutto, viene comunque voglia di consigliare questo disco, sicuramente incostante e troppo spesso autocontraddittorio, perchè quella dei Veils è comunque una musica, nel bene come nel male, basata sulla verità della vita vissuta che la riempie e plasma ad ogni accordo che lascia vibrare. Di voci come quella di Finn Andrew non si smetterà mai davvero di avere bisogno, qualsiasi cosa accada. Ed è già molto che continui a risuonare attraverso le sue nuove canzoni.