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Trascorsa ormai una decade dal debutto dei Silicone Soul ci pensa di giustezza il loro nuovo lavoro a celebrare degnamente i primi dieci anni di attività del duo di Glasgow, svezzato dapprima dalla Soma Records su precetti Slam e impostosi poi come uno dei progetti qualitativamente più validi della recente scena elettronica.
Il regalo, in questo caso, ce lo fanno i festeggiati con un disco baciato dagli angeli e benedetto dai demoni, quasi una summa del loro percorso artistico, qualcosa ancora splendidamente sospeso fra classicità e modernità nel solito magistrale mix di chiari e scuri a restituire l’abbaglio e la penombra nelle infinite sfaccettature di quella complessa meraviglia che è il corpo tech-house.
A tracciare le coordinate subito l’ipnosi “Koko’s Song” – che nasce come speciale tributo ad un fan prematuramente scomparso – a indicare la rotta in una dubby implosione di malinconica intensità, ma brezza di speranza a spirare sopra un finale blippato altrimenti da perentorio game over. E’ una presenza aliena quella che avvertiamo in “Dust Ballad II” dove tornano quali segni distintivi imprescindibili le rotondità pastose e la circolarità dei bassi, quegli allunaggi di synth dietro a voci spacey. A dominare il tutto c’è la visione di Reed e Morrison, davvero fra i pochi rimasti a insistere così credibilmente nell’indagine emozionale della cosa house, a parlare correntemente il linguaggio dell’anima padroneggiandone la grammatica laddove “Language of the Soul” è sibilo che striscia sottotraccia in velluto funk e “Call of the Dub” allestisce un tour de force minimale ai limiti dell’allucinazione. “David Vincent’s Blues” – il nome è quello del protagonista di “Invaders”, serie sci-fi degli anni ’60) riesce ad annodare uno strafichissimo loop astrale intorno a giostre percussive, “Hurt People Hurt People” rincara di dub chiudendosi compatta in una dimensione claustrofobica, il minimal-groove dell’implicita “The Pulse” ha un fascino quasi erotico che trascina giù deep un’ipotesi intrigante di dance subacquea fra pulsazioni abissali, squarci di luce e ancora dub-lacerazioni. Definire notturne le atmosfere thrilling di “Midnite Man” significherebbe essere banali ma il suo sinistro incedere rivela un’indole del tutto cinematografica nell’allungare ombre di proporzioni hitchcockiane, “Season of Weird” medita impulsi melodici risputando memorie acid, l’oscura poetica di “Dogs of Les Ilhes” è semplicemente bellezza deep che porta in sé il brivido della vertigine se, come le compagne di viaggio, procede via solida e ben piantata ma al contempo scossa da una nitida visione a incendiare la mente.
Solo i rintocchi delle campane a punteggiare il silenzio della notte, i guaiti dei randagi in lontananza, gli occhi alti verso l’orologio del campanile in quello che non può che essere un non-luogo onirico intrappolato magicamente in un tempo senza tempo.
Equilibrata asciutta essenziale – sin dalla programmatica scelta del titolo omonimo – la quarta prova dei Silicone Soul è lì a ribadire come la semplice ordinarietà possa a volte risultare assolutamente straordinaria.
Una di quelle cose per cui ringraziare il padreterno.
Almeno per altri dieci anni.