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Nel nuovo malinconico e spettrale album “The Mirror Explodes”, edito dall’etichetta cult Tee Pee, i californiani Warlocks fanno autocoscienza, contemplando la loro immagine, il loro senso, in quello specchio significante dell’esecuzione musicale, che poi decidono deliberatamente di far esplodere attraverso una cupa e umorale psichedelia, facendone sgretolare e frantumare il corpo in più punti.
Rimangono qui e lì scaglie di hard rock, stoner e sperimentazione più “tradizionale”, sommerse da ettolitri di sangue denso, marcio e paludoso, vestigia di ciò che fu espresso con impeto e sonico furore nel precedente “Heavy Deavy Skull Lover”, ora drammatizzate nelle distanze abissali e ipnotiche di movimenti e arrangiamenti in-quietamente paesaggistici. Bobby Hecksher si veste da sacerdote pagano di misteri infernali, da profeta del suono distorto e insieme intimo di chitarre in fuzz e delay, cantando con voce sempre più filtrata e depressa (nel senso di cava e afflitta) le sue psicotiche litanie.
In questa nuova gentile ed estenuata estetica della disperazione tutto appare, quindi, più ordinato e amalgamato, rispetto alla multiforme e incandescente materia lisergica di “Heavy Deavy Skull Lover”, più personale e assoluto. Naturalmente tale operazione poetica priva i Warlocks di quella forza, collerica e psicopatica, per la quale in molti, un paio di anni fa appena, gridarono al miracolo, chiamando in causa, trascinati dall’entusiasmo, mostri sacri come Velvet Underground, Black Sabbath e 13th Floor Elevators.
Eppure il disco nuovo ha stile e dimostra volontà di evoluzione, le tracce non sono troppo lunghe e sorprendentemente non sono così noiose come uno si potrebbe immaginare. Le chitarre elettriche e la batteria sono echi sempre più lontani e tempestosi, mediati da effetti tetri e annichilenti, come lente distruzioni in perenne dissolvenza, di cui possiamo ammirare la bellezza e la mostruosità senza subirne l’eccessiva potenza sentimentale e strutturale. Anche sul versante esecutivo è chiaro che i Warlocks continuano, nonostante la deriva sempre più estetica e concettuale, a suonare come una band innamorata del rock’n roll.
Il preludio del disco “Red Camera” è secco e al tempo stesso dilatato, uno stornante abbandono della lucidità che perfettamente anticipa il mood e la cifra estetica delle canzoni a seguire. In “The Midnight Sun” la band suona uno shoegaze estremo, durante il quale i californiani più che guardarsi le scarpe sembrano fissare il fondo più oscuro del tartaro, producendo un suono spento, spazialmente claustrofobico e noise. Il ritmo dell’album pare crescere leggermente nell’ossessiva “Slowly Disappearing” per poi riabbassarsi come un’onda infranta nella seguente “This Is A Formula To Your Despair”. Dalle prime note “Standing Between The Lovers Of Hell” si presenta più tagliente e minacciosa: praticamente il pezzo dell’album più vicino alla precedente produzione del gruppo. In“You Make Me Wait” questo climax ritmico e chitarristico si spezza e si scioglie sotto raggi di crash e ride infuocati e feedback crudeli. “Frequency Meldtdown” paga pegno alla storia della psichedelica più nera dei Greateful Dead in trip negativo e dei Velvet Underground in crisi d’astinenza. Chiude il disco, in perfetto stile ’60, l’infernale ballata di “Static Eyes”, dove se chiudiamo gli occhi possiamo immaginare un Jimmy Page (magari con qualche dito della mano sinistra in meno) che suona una ninna nanna per lo spirito di Crowley.
Bello, drogato e sincero, forse un pochino ripetitivo, ma si sa che sotto l’effetto di certe cose la ripetizione non è un difetto.