Share This Article
Cos’hanno in comune i Maisie, spericolata realtà messinese del pop italico, con l’echidna istrice, l’ornitorinco, l’emù, il diavolo della Tasmania e il tilacino? Nulla, apparentemente, direte giustamente voi: eppure l’essenza di questo combo strampalato, in grado di far sposare Giorgio Moroder con l’elettro-pop contemporaneo e di generare controtempi allucinati e complessi, rilascia dietro di sé una fragranza che sa maledettamente di “via d’estinzione” o, per essere ancora più precisi, di autoctona unicità. Sia chiaro, non si sta qui a giocare a rimpiattino con termini come inimitabile et similia, per quanto l’idea attraversi la mente con maligna seduzione: ciononostante sarebbe sciocco, per non dire controproducente, non lambiccarsi il cervello nel cercare la postura adatta alla musica di questo duo che da anni procede imperterrito per la sua strada senza lasciarsi avvinghiare da qualsivoglia moda musicale. Cinzia Le Fauci e Alberto Scotti attraversano il tessuto sonoro dell’indipendenza italiana – e la Snowdonia è una delle realtà meno allineate, muovendosi in direzione uguale e opposta rispetto alla Wallace Records di Mirko Spino, tanto per dirne una e dirne una dall’altra parte della penisola – come folletti, invisibili ai più eppure determinanti nella percezione stessa del rock.
Quando l’italo disco fa capolino – in ben più di un’occasione – tra le pieghe delle quarantaquattro tracce (in fila per sei col resto di due?) che compongono questo monolito in due cd, come nella splendida title-track, non è per puro gusto passatista, nostalgico sguardo al contrario, disarticolato canto d’amore a ciò che più non è, nossignori: si tratta piuttosto di una consapevole e imbastardita volontà di ribadire attraverso la composizione musicale le trame che affiorano dai testi della band. E già, perché c’è gente che ancora si prende la briga di scrivere testi che abbiano un senso ben preciso, e senza alcuna intenzione di sacrificarli sull’altare della musica: al di là dei balletti, dei ritmi vari ed eventuali (techno, pop, quattro quarti scatena-bacino, polka, punk o-giù-di-lì, funk angoscianti) che arricchiscono un lavoro estremamente sfaccettato, ciò che realmente i Maisie ci stanno raccontando è il crollo definitivo della speranza, e la devastante ombra di una morte sociale, intellettuale e fisica che non potrà che coglierci all’improvviso ma che non avrà i nostri occhi, anzi. Avrà gli occhi di Simone Cristicchi, della foresta uccisa da “La centrale nucleare”, di un sabato che i milanesi saranno pure capaci di ammazzare ma che nel resto della penisola non è altro che un suicidio: è la morte dello smembramento a suo modo infernale di “Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di ***?” o dell’”Ultima discoteca in città”, in cui lo spettro di Tony Manero viene definitivamente spazzato via.
I cadaveri che già affioravano negli album precedenti (ascoltare per credere la miracolosa “Maria De Filippi”, goth-rock alla peloritana, anno domini 2005) prendono qui definitivamente il sopravvento: la morte a 33 giri non basta più, e non è più neanche il tempo di sollazzarsi con l’avanguardia (come accadeva in “Do you still remember when you have found your iud in my nostri?” e “Music is a fish defrosted with a Hair-Dryer”), per lo meno non in maniera deflagrante. Non c’è più avanguardia, ma solo pop – in tutte le accezioni che si possono dare a questa macrocategoria, sia chiaro –, a dimostrazione di una radicale ricerca del “popolare” e della sua graduale dissolvenza. In molti hanno sempre guardato al materiale prodotto dai Maisie con lo stesso sguardo che solitamente si lancia ai bambini: un sorriso di dolcezza misto alla preoccupazione di non riuscire a comprendere a fondo il perché di ciò a cui si sta assistendo. Ma è giunto il momento di affermare con forza un concetto indispensabile per arrivare ad accettare la musica di Scotti e Le Fauci (e per essere da lei accetati, ça va sans dire): non esiste naiveté in ciò che è possibile ascoltare in “Balera metropolitana”, ed è sbagliato approcciarsi a questo album con l’idea di assistere a un bislacco scherzo. Tutt’altro: i Maisie sono una delle più luccicanti realtà della musica italiana proprio perché riescono, attraverso lo specchio deformante del grottesco, a renderci partecipi di un mondo che ci si sta sgretolando addosso senza fare troppo rumore. L’affastellamento di suoni che emerge con forza in “Balera metropolitana” equivale all’urlo d’avvertimento che sarebbe grave non stare a sentire, pena la dispersione nei mari della mediocrità (“Il mare sussurra, il mare sta respirando”, da “Si sveglia”). Ciò che ci insegnano i Maisie, una volta di più, è a non accettare l’ovvio, a non lasciarsi abbindolare dai percorsi obbligati: una lezione di libertà unica e in via d’estinzione, come gli animali australiani di cui sopra (e come il Syd Barrett a cui la band deve il nome, dopotutto).
Se poi l’unica cosa che volete in un disco di musica pop e rock è ascoltare una bella canzone, fregandovene bellamente del resto, non c’è problema: provate a rimanere impassibili di fronte alla già citata title-track, a “Hanno ammazzato un bambino” o a “n. 79 – ISTITUTO MARINO (Via ortopedico)”, e stiamo a vedere quanto resistete. I Maisie ci regalano la conclusione di un’ideale trilogia – composta da “Bacharach for president, Bruno Maderna superstar!”, “Morte a 33 giri” e per l’appunto “Balera metropolitana” – che meriterebbe ovazioni, se solo fossimo un paese in cui la cultura avesse un qualche valore.
Che dite, troppo pessimismo in questa conclusione? E allora ecco una fine alternativa, lasciata alle parole di Cinzia Le Fauci – con la collaborazione di Alberto Scotti – e alla voce di Nino Castelnuovo (uno dei tantissimi contributi esterni sparpagliati, come da prassi, nell’album): “Sarebbe bello fare solo il suonatore, se gli strumenti ci facessero campare. Sarebbe bello ‘sto mare se ci potessimo tuffare, sarebbe più bello ‘sto mare se lo potessimo cantare”. Bentornati Maisie, e prosit.