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“Hard Islands” è un disco di techno folktronica. E’ la miscela sapiente di elementi affini tra loro, assimilati e distillati in sei tracce piacevolmente ballabili.
Il giovane Fake, ormai entrato da qualche anno nel “giro giusto”, tra un’apparizione e l’altra in consolle, ha trovato il tempo, dopo il successo di “Drowning In A Sea Of Love” (Border Community, 2006), per preparare e consegnarci queste sei tracce, caratterizzate da una cassa che tende ad essere quasi costantemente dritta e che suonano legate da stretta parentela all’Ep “Ringer” (Domino, 2008) del guru folktronico Kieran Hebden (Four Tet).
Da “The Turtle” a “Basic Mountain”, da “Narrier” a “Fentiger” si sviluppano strutture ritmiche da dancefloor contornate da estrosi ricami mutuati, perlopiù, come detto, dalla tradizione folktronica e, in parte, dalla drill e dall’IDM (“Fentiger” in particolare ricorda molto la mano di Richard D. James). Si avverte una costante tensione verso un prodotto finale che riesca a travalicare il genere, attingendo da quelle che sono state le avanguardie elettroniche più significative degli ultimi quindici – venti anni in Gran Bretagna (ci sono gli LFO in “Narrier”). Attitudine profondamente personale ed eterodossa quella di Nathan Fake, completamente a proprio agio nell’esercizio di rimanere in bilico tra danza mentale e fisica (“Castle Rising” è un crescendo che sfiora gli Autechre e lambisce i Black Dog).
Un tributo al suono elettronico britannico in un lavoro capace di rendere attuali le forme e le inclinazioni che questo ha assunto dai primi Novanta ad oggi. Un passo ulteriore nel cammino di un ragazzo che riesce a mantenersi in equilibrio tra influenze e stile personale senza (perlomeno fino ad oggi) cadere nell’errore di una semplice e sterile celebrazione di ciò che è stato.