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Napoli è la mia città e di solito qui non ci suona mai nessuno di decente. La ragione di tutto ciò sta nel fatto che nel mezzogiorno non si vendono troppi dischi (io, però, posso assicurarvi che se ne ascoltano). La gente che organizza le tournée sfogliando i fogli cassa delle etichette, quindi, deve aver etichettato il pubblico partenopeo come una fetta di mercato non troppo preparata musicalmente, dove è inutile fare promozione e organizzare eventi live. Dal 1997, però, spicca tra le poche occasioni in cui il pubblico napoletano riesce a entrare in contatto con artisti degni di tale lemma il Neapolis Rock Festival (che ora, privatizzato, si chiama Neapolis Carpisa Festival). Qui ci sono passati i Deep Purple, David Bowie, dEUS, Rancid, Rem, Iggy Pop, Nick Cave, Massive Attack, Santana, Robert Plant, Kraftwerk e Vasco Rossi (fa imbarazzo leggerne il nome dopo i Kraftwerk!) e un sacco di gruppi più “piccoli”. Per molti lo spirito e il livello della manifestazione però sono andati decadendo di anno in anno, con gli sponsor, gli Eros Ramazzotti di turno e il trasferimento di location (dall’atmosfera romanticamente post-atomica dell’Arenile dell’ex Italsider di Bagnoli fino alla Mostra d’Oltremare qui a Fuorigrotta, passando per Stadio San Paolo e Arena Flegrea). Ma io non mi sono mai lasciato trasportare da queste ideologizzazioni sfigate e ogni anno ho trovato sempre una buona ragione per tornare al Neapolis. Quest’anno questa ragione a dire il vero non l’avevo trovata. Certo, in cartellone spiccavano, come rose da uno spineto, i Prodigy, a loro modo imperdibili, ma non mi sentivo dello spirito adatto e, quindi, soffriggevo nell’incertezza. Poi sono arrivati gli accrediti stampa di Kalporz e l’incertezza è passata. Non che non potessi procurarmeli da solo: qui a Napoli si fotocopiano, o meglio si scannerizzano, si modificano su Photoshop e si stampano su cartoncino, ma è un dispendio di energie tale che tanto vale comprarsi il biglietto. Arrivo così alla Mostra d’Oltremare verso le 19:00 di Mercoledì 15 Luglio. C’è un sole caraibico. Fuori dalla struttura c’è poca gente, soprattutto bagarini sovrappeso e sudaticci che compravendono biglietti a due metri dalla pattuglia di carabinieri altrettanto grassocci e untuosi. Faccio la mia fila al botteghino per ritirare l’accredito stampa e concordare qualche intervista face to face con gli artisti, che se devo fare il reporter lo voglio fare bene! Il tipo dell’organizzazione però mi gela immediatamente: “Niente interviste!”. “E perché?”, rispondo candido. “Perché gli artisti non vogliono”. Azz. Poi aggiunge: “Voi della stampa potete solo documentare il concerto, niente backstage e niente interviste!”. Il mio report inizia proprio una schifezza… ma è inutile discutere e mi butto dentro mostrando accredito e documento d’identità a un buttafuori che assomiglia a Charles Manson. C’è ancora poco pubblico e troppo sole. Ci sono un sacco di stand con maglie radical chic, maglie cafone, dischi introvabili, dischi sputtanati, spillette carine e cazzate varie e due bar uno più caro (non moralmente) dell’altro. A questo punto, visto che sono un reporter alle prime armi, ma soprattutto un maleducato disubbidiente, tento l’assalto al backstage affrontando il buttafuori alla destra del palco. L’energumeno mi guarda l’accredito stampa che mi penzola dal collo, lo afferra e mi dice: “Qui passano solo quelli che c’hanno scritto F: che c’hanno il Free Pass. Oppure passano quelli che c’hanno scritto V: cioè che sono Vip”. Io non c’ho scritto niente, neanche S, ossia manco stronzo! Quindi mi informo se è possibile avere questo accredito con la F o con la V… Lui però, nel suo linguaggio non propriamente gentile, mi dice che è proprio impossibile.
Intanto dal palco annunciano i Marlene Kuntz e sconfitto mi appropinquo alle transenne che dividono le prime file dal palco. Circonfusi dalla gloria di un sole estivo e fastidioso entrano in scena i Marlene con la loro formazione a 5. Cristiano ha tagliato i capelli e sfoggia una barba sfatta di qualche giorno, Riccardo è un po’ incanutito e Luca nascosto da una batteria gialla. Il primo pezzo è “Bellezza”: violino straziante e armonia apollinea di voci e chitarre, preziosa su disco come dal vivo. Il pubblico è per ora piccolo di numero e d’età e misurato nell’entusiasmo. Cristiano allora prende la bacchetta. Dieci anni fa questo gesto scatenava l’inferno tra la platea, perché tutti si sapeva a quale estasiante esplosione di rumore avrebbe indotto. Qui però nessuno pare fregarsene più di tanto e così, un po’ in sordina, parte “Sonica”, all’ennesimo ascolto ancora deflagrante e coinvolgente. Io faccio qualche foto e canticchio, mi perdo in certi ricordi proustiani, poi camminando a gambero urto la bacinella di plastica dove un venditore ambulante tiene in fresco le birre. Lancio sguardi dietro il palco: accarezzo la tormentata coscienza di non riuscire a intervistare nessuno… che vergogna di giornalista che sono! Allora decido a istinto di intervistare il venditore di birre che guarda schifato verso il palco. “Che ne pensi di questa musica? Ti piace?”, gli chiedo a bruciapelo. “O mal’e cap” (L’emicrania, N.d.T.), mi risponde lapidario. Intanto scorrono “Nuotando nell’aria” (dove Cristiano stecca l’attacco dell’assoletto malinconico dopo “amando, amandoti ancora”) e “Impressioni di Settembre” e il pubblico a orecchie e menti spalancate si scioglie. Questo pezzo è odioso quanto trasversale: piace a tutti. Seguono le energiche “Canzone di Oggi”, “A fior di pelle”, “Primo Maggio” e “Uno”. Intanto chiacchiero con una tipa che è venuta per i Virgins. Mi dice che questi Virgins però non si esibiranno perché uno di loro ha avuto un lutto grave in famiglia: una scusa da scuole superiori insomma, ma oltre a lei nessuno noterà la loro assenza. Ora i Marlene trascinano i miei cattivi pensieri con il sottofondo funereo di “Ineluttabile”. La musica tenebrosa scorre e si dilata in una progressione minimale e psichedelica, infiammabile e avviluppante. Un piano dolce introduce poi l’elegiaca “Grazie”, dopo la quale Cristiano presenta il gruppo e saluta il pubblico. Largo applauso dei pochi presenti e fine concerto Marlene. Vado a farmi un Cuba Libre. Vedo una tizia che entra dietro il palco. Non ci penso due volte: prendo una penna e mi scrivo F sul pass, così a fetente di merda. Mostro il cartellino al buttafuori di sinistra, che sulle prime è diffidente, poi si lascia convincere da un paio di latinismi, buttati lì con disprezzo manzoniano (“Caro, mi è stata aggiunta a posteriori a penna dall’ufficio stampa, non potevano stamparmi un nuovo pass ad hoc, tu lo capisci…”). Faccio una corsa dietro il palco per acchiappare Godano e soci per un’intervista, ma loro sono già dentro all’edificio off limits dove si svolge il rinfresco dei divi. Mi guardo attorno afflitto: anche questa irruzione è stata inutile.
Mi siedo sulle scale dietro il palco a guardare i tecnici che trascinano senza cura monitor e ampli. Poi mi giro e mi accorgo di essere seduto accanto a Lucariello (quello degli Almamegretta) e la figlia di Mina. Gli chiedo un accendino e finisce che chiacchieriamo un poco. Penso di intervistarlo, che tutto fa brodo, ma poi mi rendo conto che sarebbe un po’ patetico. Il cielo imbrunisce e dall’edificio alle nostre spalle esce la band di Daniele Silvestri che va a sistemarsi sul palco. Dopo due minuti esce pure Daniele Silvestri (al quale scatto delle foto che prossimamente manderò a Novella 2000). Mi avvicino per intervistarlo, lui è gentile e anche se ha fretta risponde a un paio di domande. Mi dice che questa è l’unica data che farà quest’estate, che dopo sarebbe carino suonare “Liberi Tutti” con i Subsonica, che Napoli gli piace tanto e che è proprio tardi e deve andare. E vai, chi ti trattiene… Mi risiedo tra Lucariello e la Mazzini e c’ascoltiamo la radioheadiana “Aria”, lenta e infelice, forse invecchiata un po’ male. Poi Silvestri attacca con un po’ di retorica e inizia la sua serie di pezzi monotematici su Berlusconi: “Il mio Nemico”, “Faccia di Velluto” et similia. Sul pop dolciastro di “Occhi da orientale” abbandono il backstage per raggiungere degli amici al bar e farmi un cocktail. C’è una fila inumana. Per raggiungere l’agognato Vodka Tonic devo sorbirmi schiacciato dall’umana moltitudo “il Dado” (grunge ‘n roll carino dall’omonimo disco, che ricordo ancora con piacere, da rivalutare), l’esecrabile “La Paranza”, “Salirò” e il finale “Cohiba”, con il pubblico (intanto moltiplicatosi esponenzialmente) allegro e danzante. Arrivo finalmente al bancone mentre Silvestri fa il suo discorsetto antiberlusconiano finale e decido di intervistare il barista: “Wa, è mai possibile che per avere un vodka tonic devo aspettare 3 ore?”, ma la domanda deve risultare pretestuosa tanto che il barista non mi risponde, rifugiandosi in uno strategico no comment. Dopo qualche minuto ritorno al backstage, dove c’è Silvestri che chiacchiera con Samuel dei Subsonica. Faccio qualche foto e cerco di circuire Max Casacci, che però deve fare una telefonata importante, si scusa e si allontana. Maledetto! Fa su e giù lo struscio Jovine dei 99 posse, ma intervistare lui sarebbe proprio da sfigati. Mi rendo conto di essere afflitto da frenesia da intervista compulsiva e concludo che mi devo calmare.
Così decido di andarmi ad ascoltare i Rinôçérôse giù tra il pubblico come un debosciato qualsiasi. I francesi si dimostrano da subito un gruppo viscoso e denso, coinvolgente, una vera sorpresa! Il loro funky rock-dance è un’orgia orgasmica e liberatoria di grooves house, beat electro, rumori avanguardistici, melodie e schitarrate. Stupendi nel look, singolari nell’esecuzione. Il set li vede confusi in una scenografia con 4 pannelli bianchi sui quali vengono proiettate immagini di un treno in corsa, molto Kraftwerk e molto kitsch. Il duo di Florian Brinker (basso) e Jean-Philippe Freu (chitarra) si trasforma così in una potente live band, grazie al lavoro della chitarrista Patrice Carrié, tutta un nervo fasciato da latex, che macina da riff coinvolgenti un po’ Stooges, un po’ disco-funk in levare, del batterista riccioluto, che è una cassa dritta in costante battere, e del cantante, che è un pazzo scatenato: un misto tra Freddie Mercury, Aretha Franklin e Lux Interior da quattro soldi. Ogni pezzo scalda e diverte il pubblico. Dopo il boom di “Bitch”, il rock n’roll digitale di “Cucible” e la cult “Schizophonia”, lascio stare per un attimo i francesi a fare i diavoli sul palco e ritorno al backstage dove becco Luca Bergia dei Marlene. Lui conosce bene Kalporz ed è contento di rispondere a qualche domanda. L’intervista la potete leggere a questo link. Ecco. Fatta l’intervista. Ringrazio Luca, faccio qualche foto e commentiamo insieme i Rinôçérôse, che intanto continuano con il loro furor a far ballare tutti i fan dei Subsonica che affollano la Mostra d’oltremare. Soddisfatto esco fuori a godermi il finale di “Fucky funky music”. Poi ritorno dentro per intervistare il gruppo francese. Fermo un attimo la chitarrista bionda, le faccio i complimenti (in inglese) per lo show e le chiedo se è disponibile per due domande. Lei sorride. Poi mi ricordo che è francese e le dico “Enchanté” e così lei mi risponde nella sua lingua, ma non capisco un’acca. Alzo le spalle e lascio perdere. Dico “ciao, ciao”. Lei ri-sorride e si avvia nell’edificio.
Arrivano i Subsonica, gli headliner della serata. Il pubblico è tutto per loro. Sono reduci da un tour europeo e si vede, entrano con l’aria delle super star e aggrediscono il pubblico con la doppietta micidiale “Aurora Sogna”-“Colpo di pistola”: saltano anche i paralitici. Samuel tiene in pugno il pubblico con la sua presenza scenica e i suoi balzi atletici; Boosta si dondola sulla sua tastiera flexi con gambe divaricate e jeans attillato alla Ramones; Max dirige attento il tutto; batteria e basso fanno il loro oscuro e fondamentale lavoro ritmico non sbagliando un colpo. Nel pubblico tante piccole protagoniste del video di “Nuova Ossessione” muovono il culetto e fanno il karaoke. Poi arriva “Liberi tutti”. La gente si aspetta Silvesti che però non sale sul palco. Tutti pensano “che snob del cazzo”. In realtà una ragazza fa una folle corsa per andarlo a recuperare nel camerino, lui scende in fretta e furia, ma un secondo prima di salire sul palco Samuel ha già cantato la sua parte. Umano troppo umano! Lo sconsolato Silvestri raggiunge l’angolo del palco dove troiette e vips (leggi figlia di Mina, addeti ai lavori e Noemi alternative in superminigonna) ballano e incitano i Subsonica. L’atmosfera si pacifica con “Strade” e “L’odore”. Poi i Subsonica abbandonano il palco per dare un attimo di tregua a se stessi e al pubblico. Ritornano acclamatissimi e bestemmiatissimi (il napoletano è un tipo impaziente) con “Discoteca Labirito” e tra la platea non si capisce più niente! Poi è la volta di “Up Patriot To Arms”, bella e importante e “Nuvole Rapide”. Il batterista introduce come un metronomo ipnotico “il mio Dj”. Boosta abbandona le tastiere per fare il Roger Waters della situazione ai piatti. Ma è una mezza figura di merda perché va fuori tempo al secondo colpo, quindi ritorna a fare il suo lavoro e cioè lo scemo alla tastiera. Ma non è ancora abbastanza, c’è tempo per “Me siente”, con dedica speciale ai 99 Posse e alla loro imminente reunion (e chi se ne frega non ce lo mettiamo?), e “Nuova Ossessione”. Il pubblico dà in escandescenze. Il set è molto rock, ma non perde la sua potenza in bassi e danzabilità. Il finalissimo è suggellato da una strepitosa “Tutti i miei sbagli” con il pubblico in estasi e Subsonica emozionati. Napoli è, nel bene e nel male, un luogo comune: sa dare tanto; è piena di calore e di contraddizioni e se vuole premiarti sa come farlo. Stremati i torinesi abbandonano il palco e coperti da asciugamani azzurri scappano nell’edificio dei camerini lasciando appesa tutta la stampa presente (io e altri due poveracci con la telecamera). Ma va bene così. Appuntamento a domani.
(Giuseppe Franza)