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Per la sua sesta volta la kermesse diretta da Max Casacci si conferma torinese ma trasloca alle porte della città. Ne guadagna il colpo d’occhio (i giardini della Reggia di Venaria sono una cornice di lusso) ma si sconta qualche impiccio pratico in più. L’offerta artistica esce invece dalla stretta economica un pochino più calibrata ma annoverando comunque il non trascurabile bottino di tre esclusive nazionali ad ingresso totalmente libero.
A forza di sentir parlare dei Bad Seeds come di una delle migliori macchine live in circolazione si finisce con l’immaginarseli come dei professionisti del palcoscenico, dei mestieranti di provata esperienza: bene, mai idea fu più sbagliata di questa. Dopo una convincente esibizione spalla di St.Vincent (un bello schiaffo all’immaginetta della chanteuse barricata dietro la pianola) e la mala partenza di “Papa Won’t Leave You Henry”il sound del gruppo assume pian piano una forma definitiva, per poi prendere la volata definita sulla coda di “Red Right Hand”. E’ un hangar che decolla, con un Nick Cave in gran forma al posto di guida e con il seguito di un suono ammazzatutti che del “professionale”, fortunatamente, ha ben poco. Piuttosto è il curato dosaggio delle tastiere a togliere in eleganza quanto aggiunge in potenza e a cedere quasi sempre la parola alle chitarre: carole gotiche come “Jesus of the Moon” e “The Weeping Song” ne escono violate e trasfigurate. E anche se ai picchi in alto corrispondono spesso gli episodi migliori del suo songwriting (“The Ship Song” stasera è da lacrime agli occhi) è fin troppo chiaro che il Re Inchiostro tutto ufficio&pianoforte raccontato dalle cronache di tre o quattro anni fa è definitivamente finito in archivio, per la gioia dei suoi 30.000 sudditi presenti.
La serata di venerdì è la prima dedicata alle sonorità elettroniche, con l’apertura ad alta esposizione sintetica dei Ladytron, esponenti radicali del partito “wedon’tneedguitars” e, Dio ci scampi, del revival ottantiano. Segue il set dei Primal Scream, questa sera in realtàpiù analogici che digitali: con il più classico degli assetti stonesiani, infatti, gli inglesi passano in rassegna le migliori chicche della loro carriera e compilano una setlist “antologica” nel senso letterale del termine. Da “Can’t Go Back” ad “Accelerator”, passando per “Kill All the Hippies” e “Suicide Bomb”, ci sono proprio tutte e sono così belle e tonde che ogni tanto ci si annoia quasi un po’ …Gli omaggi resi a MC5 e a Bo Diddley (uniti alla comparsa sul megaschermo dei Parliament, in tutto il loro acido splendore) chiariscono oltre ogni dubbio che qui si marcia nel nome del rock’n’roll più negroide, anche se toccherà comunque aspettare fino alle sirene di “Swastika Eyes” e al ritmo neuiano di “Shoot Speed – Kill Light” perché il tasso danzereccio si alzi come si deve.
Il terzo ed ultimo giorno consacra definitivamente l’”outing” del sottofilone dance/club, che da sempre palpita sotto la pelle di un festival essenzialmente rock come il Traffic e che per la seconda volta (dopo il concerto dei Daft Punk un paio d’anni fa) esce allo “scoperto” sulle assi di un palcoscenico. Se il tocco glam di Santigold si limiterà a scaldare un po’ gli animi (50.000 animi, a quanto si dice in giro) la vera bolgia scatta soltanto con il turno degli Underworld: il duo britannico si porta ancora appresso l’etichetta di “quelli di Trainspotting” e d’altra parte non sembra nemmeno così intenzionato a distaccarsene. Molto più di quella dei connazionali e coetanei di ieri, la loro esibizione è un vero inno in Multicolor agli anni ’90 sintetici. Il vocalist impailettato in prima linea regola un flusso elettronico ininterrotto che conserverà “Born Slippy” per il gran finale. Si gioca con le immagini del grande schermo, enormi palloni bianchi vengono lanciati fra le mani dei presenti e si ergono coloratissime torri gonfiabili per i bis: la prescrizione piccola in basso recita “da consumarsi con l’aggiunta di stupefacenti per un uso appropriato” e molti tra i presenti non esitano a seguire il suggerimento alla lettera.
Il djsetting continuerà con i Bloody Beetroots prima e con i Crookers poi. Chi rimprovera al concerto rock presunte movenze fascistoidi dovrebbe buttare un’occhiata a questa coppia di tizi incappucciati, che arringano la folla con le mani ad un ritmo praticamente marziale. L’insalatone tra elettronica e pezzi rock remixati, comunque, regge il tiro e riesce anche a regalarci un’ultima, gradita sorpresa: è lo spettro di Ian Curtis e dei Joy Division di “Disorder” a chiudere definitivamente il festival, con il vinile di “Unknown Pleasures” lasciato da solo a girare sul palco, mentre la popolazione del Traffic si dà appuntamento al prossimo anno.