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Non sono mai stato un grande sostenitore dei Diaframma, ma devo ammettere che dopo aver ascoltato “Il Dono” mi è venuta un’improvvisa nostalgia di tempi non troppo recenti e mai troppo rimpianti. La memoria è così volata senza volerlo a momenti più leggeri, quando andavo a scuola e tutto era maledettamente più semplice, alle lunghe attese alla fermata del tram con le cuffie incollate alle orecchie e la cassetta del walk-man saldata sulle canzoni dei Faith No More, al grande amico Tommaso che instradò me e molti altri ragazzi della stessa compagnia sull’impervia e ribelle del rock, grazie alla sua stanzetta tappezzata di poster dei Pink Floyd, Suicidal Tendencies, Sex Pistols, e di una ribelle e quanto mai “punkeggiante” scarpa da ginnastica incollata sul soffitto del suo bagno. Ma ciò che più di tutto mi è saltato in testa mentre ascoltavo con goduria queste canzoni è stato il mio compagno di banco delle scuole superiori, che nonostante i miei frequenti sfottò era convinto di conoscere un gruppo di musicisti fiorentini che avrebbero “mangiato la pappa in testa” ai Litfiba: a quei tempi dire quelle cose proprio a Firenze era un po’ come bestemmiare dentro ad una chiesa. Il gruppo a cui si riferiva il mio compagno di banco erano i Diaframma del carismatico Federico Fiumani ed oggi, a distanza di qualche anno e con alcuni riccioli bianchi in testa, mi sento in dovere di dargli tutte le ragioni di questo mondo.
A Federico Fiumani riconosco alcune doti che me lo hanno reso fin da subito molto simpatico: il suo romanticismo alienante, la sua curiosità malata ed il suo essere sempre affascinato dal “diverso”, il fatto di incarnare con umiltà la figura di colui che perde, ma “con un certo stile”, sono tutte caratteristiche che me lo hanno reso fin da subito molto più apprezzabile di tanti suoi colleghi ben più ricchi di soldi e ben più poveri di spirito.
Il fatto è che Fiumani aveva scoperto anni luce prima di loro dove si nascondeva il vero amore e lo ha raccontato senza troppi fronzoli nella canzone che qui viene magistralmente interpretata dagli sconosciuti quanto fascinosi Magnolia. Se ci si pensa bene questa sua visione ombrosa ed introspettiva degli accadimenti non si discosta troppo dal pensiero del grande Fabrizio De Andrè, che come oramai tutti ricordano, affermava placidamente che “dal letame nascono i fiori”: evidenti punti di contatto tra anime fragili.
La disarmante capacità di assemblare parole, suoni e suggestioni con sorprendente immediatezza, ottenendo pensieri fulminanti, a prima vista sfuggenti, quasi ermetici ma comunque mai banali, gli ha permesso di ottenere un nutrito seguito di fedeli sostenitori e la stima di molti musicisti, soprattutto quelli della nuova generazione, che qui gli rendono un doveroso omaggio, interpretando a modo loro alcune delle più belle canzoni che hanno segnato l’impervio cammino dei Diaframma.
C’è Dente, che con la sua eleganza e la sua fascinosa “erre moscia” riesce a caratterizzare la stupenda “Verde”, c’è Alessandro Grazian che riesce nell’impresa di rendere ancora più malinconica la già di per sé evocativa “Fiore non sentirti sola”, ci sono i Superpartner che soffiano inebrianti ventate di freschezza sulla poesia di “L’Odore delle Rose”, Samuel Katarro che con i suoi caratteristici gemiti allucinati stravolge “Diamante Grezzo” e non poteva certo mancare Vasco Brondi, che riesce con personalità ad impossessarsi di “Un giorno balordo”. Se non fossi certo, con matematica sicurezza, che questa è una canzone dei Diaframma, farei fatica a crederci: pare un vestito cucito su misura per il progetto Le Luci Della Centrale Elettrica, una canzone fuggita senza dire niente a nessuno dalla lista di titoli di “Canzoni da spiaggia deturpata”.
Ma c’è dell’altro: è impossibile non rimanere inebetiti di fronte alla sfrontata precisione elettrica dei Marlene Kunz, qui alle prese con l’immarcescibile “Siberia”, oppure riscoprire tutta la bellezza delle parole di “Labbra blu”, attraverso la voce sicura di Roberta Carrieri.
Ma i veri brividi devono ancora arrivare e si provano ascoltando la voce stridula e non certo avvezza al canto della scrittrice Elena Stancanelli, mentre sussurra incerta il ritornello di “Amsterdam”:“mentre il giorno ferito impazziva di luce” è una di quelle frasi che può racchiudere al suo interno un intero mondo o più semplicemente il niente, questione di punti di vista e di sensibilità artistica.
D’altronde, è risaputo, la poesia non ci viene mai incontro, bisogna perderci un po’ di tempo per saperla coltivare e riconoscere. “Il Dono” rivaluta così la figura di Federico Fiumani: cantante, musicista e scrittore, ma soprattutto poeta dell’introspezione umana dai contorni un poco alienati, involucro di carne, ossa (e ciuffo) a protezione di un anima fin troppo fragile, romantica e in continuo subbuglio.
Se poi siete alla ricerca del vero “diamante grezzo”, sappiate che non lo troverete spulciando tra i titoli sul retro della copertina, ma è stato nascosto, come tutte le cose più belle, proprio alla fine, tra le pieghe di una commovente ghost-track interpretata da quel geniaccio “border-line” di Bobo Rondelli, qui ispirato come non mai. La sua rivisitazione di “Grazie davvero” , chitarra e voce (e che voce!) riesce a toccare corde nascoste che forse solo lui, nel suo essere squisitamente fuori da questo mondo, riesce a percepire: la degna conclusione di un tributo quanto mai riuscito.
Il ringraziamento finale tocca d’obbligo a Federico Fiumani: “Il dono è quello che mi hanno fatto i gruppi accettando di reinterpretare alcune mie canzoni. Mi piacete tutti, anche fisicamente”.