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Esistono dischi microscopici, talmente esili e sottili da passare attraverso i filtri della critica più allertata e sensibile senza che nessuno se ne accorga. È forse questo il caso soprattutto di un cantautore-menestrello come Cass McCombs, californiano d’origine ma vagabondo di indole, con trascorsi teatrali alle spalle e tre album più un ep dati alle stampe senza clamori eccessivi tra il 2002 e il 2007. Torna adesso con il nuovo “Catacombs” ed è sin troppo facile prevedere come la sua (ahimè ristretta!) popolarità non subirà di certo impennate repentine, ma non per questo le cose che il suo genio poetico un po’ sghembo e defilato ha dirci e raccontarci diventeranno di colpo meno interessanti o necessarie, si può starne certi. In un anno (non ancora concluso, è bene rammentarlo) che ha già saputo regalare bellissimi dischi di puro cantautorato americano in bilico tra tradizione e sibillino postmodernismo, (si pensi soltanto ai brillanti lavori di Andrew Bird e DM Stith, senza dimenticare le tutt’altro che trascurabili conferme, fra loro quasi speculari, di Antony e Scott Matthew), anche Cass McCombs merita un significativo seppur piccolo ritaglio di attenzione volatile.
Con un sito ufficiale che non contiene informazioni ma soltanto curiosissime collezioni di materiali fotografici vagamente inquietanti, e un piccolo capolavoro di inattuale crepuscolarismo amoroso in punta di plettro e labbra socchiuse come “Dreams-Come-True-Girl” (in duetto con l’attrice e cantante Karen Black), Cass non è uno strimpellatore d’ispirazione bohemien-neofolk come tanti altri, basta davvero poco per rendersene conto. Quasi sempre un po’ pensoso e, a tratti, perso in una bisbigliante introspezione che rimugina il passato ad occhi socchiusi, Cass McCombs rivela a poco a poco la sua arte pacata e silenziosa di artigiano di piccoli incanti poetici in bilico tra country-folk e melodismo pop dal gusto piacevolmente retro, un po’ Leonard Cohen, un po’ John Martyn. Non tutto brilla della stessa timida (ma calda) luce, eppure canzoni come “The Executioner’s Song” o “Harmonia” valgono una piccola deviazione dalla solita routine giornaliera verso questo piccolo ma non angusto rifugio sonoro.
Di canzoni da godere se ne incontrano più d’una, da “My Sister My Spouse” a “One Way To Go”, passando per l’elzeviro harrisoniano “Jonesy Boy”, tutte in qualche strano modo baciate da una grazia fragilmente anacronistica, coperte da un alone sottilissimo ma palpabile di ruggine invecchiata, che le fa quasi somigliare a monetine di conio sconosciuto trovate per puro caso nel fondo di una fontana malmessa. Monete fuori corso molto probabilmente, che lasciano però tra la mani la certezza di custodire soltanto per sé il segreto di un altro grande “minore”.