Share This Article
Non è certo una matricola la Spasulati Band, formazione di Santa Sofia d’Epiro, enclave linguistica albanese in terra di Calabria. A otto anni di distanza dall’exploit milanese di spalla a Manu Chao, il terzo album (dopo “Spasulati Band” e “Pirati nei MHz”) offre all’ascolto solide certezze, o conferme che dir si voglia.
La prima, piuttosto disperante per un recensore, consiste nella sostanziale e letterale indescrivibilità verbale della musica di maggiore qualità, per lo meno nell’ambito cosiddetto “popolare”. La seconda, a fare da consolante contrappeso, è che c’è ancora in giro qualcuno che crea musica “etica e resistente”. Di “Kilometrando”, che merita senza dubbio che ci si aggrappi al pensiero positivo, stupisce l’assoluta compattezza e uniformità stilistica: in questo senso si tratta di un disco maturo, perentorio, decisamente assertivo e diretto, efficacemente bidimensionale ed egalitario nella assimilazione e dichiarazione degli elementi costitutivi. La Spasulati vi squaderna in faccia tutto e subito il suo potenziale e, come a Milano nel 2001, conquista al primo ascolto.
“Ciò che si vede è”, recita un verso di una lirica di Francesco Di Giacomo che si attaglia perfettamente ai cinque “spiantati” (questo significa “spasulati”): Fabio il Zalles (basso e voce), Mr. Goldenbridge (chitarra), Gianluca Marchianò (chitarra), Corrado Mendicino Mendossa (testiere e programmazioni) e Maurizio Mirabelli (batteria) mescolano in modo così naturale e spontaneo le influenze stilistiche, che la prima impressione che restituiscono è quella di un colore primario: rock evoluto dal volto amichevole e ormai emancipato dai modelli.
Il piacevole sapore ancora tutto analogico del riff di sint che apre il disco e scandisce “The Banka” pare catapultato direttamente da un VCS degli anni settanta e dà immediatamente la misura, con il suo effetto un po’ straniante e il contrapporsi alle folate di arrangiamenti più contemporanei, di un percorso artistico a due direzioni: l’una concreta e impegnata, critica e progressista; l’altra più lirica, fantasiosa e disimpegnata, attraverso contrade più o meno esotiche percorse e ricreate ex novo come una Malesia salgariana grazie ai poteri dell’immaginazione.
A fare da trait d’union l’albanese antico di gran parte dei testi, al contempo evocativo di un altrove nel tempo e nello spazio e di contingenti e attuali problemi sociali. Usura (“The Banka”), ipocrisia della religione (“Monakella”), ecologia (“La Karta”), razzismo (“Ndëse Nge Di”), lavoro nero (“I’m Happy”), emigrazione (Ngá Këtù): grandi temi che si alternano alla poetica delle piccole cose, ispiratrice di pezzi come “Oj Ná” (le storie raccontate da una nonna) o “Thiken E Bárkun” (l’immortalità dei detti popolari). Molto più difficile districarsi fra gli stili.
Con l’eccezione del reggae di “I’m Happy”, non c’è un solo brano che sia riconducibile ad un unico stile: dub, ska, etno-folk, balkan, rock più robusto si sposano inscindibilmente in una miscela autenticamente progressiva che riesce a stupire. Come nelle sottili venature di classico folk-rock a stelle e strisce in “Thiken…”; nei cambi di ritmo di “Kilometrando”, elogio del viaggio come istruzione e nutrimento dell’anima, impreziosito dalla presenza di Tonino Carotone; nelle aperture liriche di chitarra e sint di “Rencontre”; nei profumi orientali sintetizzati di “Oj Ná”; nel vigore di “Ndëse…”; nei toni morbidi e affettuosi di “Un altro giorno”; nell’inquietante cupezza di “Monakella”, un finale all’insegna del pessimismo.
Collabora al mixaggio Madaski, che firma anche una seconda versione dub-elettronica di “Rencontre”.