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Senza questa serata sarebbe stato forse un Ferrara Sotto Le Stelle in tono minore, vagamente ruffiano tra Bloc Party, White Lies ed Editors o comunque incapace di tirar fuori qualcosa di veramente fresco e coraggioso ad eccezione di Scott Matthew, visto il ricorso a vecchie star nel tributo a Nico e poi agli Yo La Tengo semi-acustici nelle tappe d’anteprima, e infine a David Byrne nella serata conclusiva. Direttamente dalla East Coast, arrivano in soccorso due delle band più importanti e rappresentative del confuso panorama musicale post-2000, o post-Kid A ideando uno spartiacque più simbolico. Come se nell’edizione 2009, gli organizzatori si fossero messi in testa di chiamare loro proprio per celebrare degnamente la fine del decennio. Non ce ne vogliano gli inglesi sopra citati e i loro simili, ma il fulcro della nuova scena musicale è dove apparire conta meno, ovvero dall’altra parte dell’Atlantico, più precisamente a New York dove ogni genere sembra percorso da una riscoperta della musica delle radici in un’istintività che la riadegua entro ambiti musicali più attuali. Viva la rinascita della scena americana insomma. Il che oltre a dare un’ideale risposta a chi snobba o meglio ignora l’esistenza di certi fenomeni contemporanei badando ai soliti nomi del passato, offre a chi vive questi anni incomprensibili dei validi sottofondi in tutto e per tutto figli di questi tempi.
Gli stessi Animal Collective si sono trasferiti nella Grande Mela da Baltimora e, con l’ottimo quinto album d’inizio anno si sono definitivamente consolidati come una realtà ormai affermata. “Merriweather Post Pavilion” fa un po’ da quadratura del cerchio nel loro ineffabile psych-folk chiassoso e digitalizzato tirando fuori anche un paio di brani dall’immediatezza quasi pop, quali “My Girls” e “Also Frightened”. Brani che coraggiosamente lasciano a passanti e spettatori del soundcheck, come di consueto aperto al pubblico nella suggestiva Piazza Castello, senza riproporli in serata. Sarà un set senza troppi compromessi quello dei tre che iniziano con un brano nuovo, l’evanescente “What Would I Want Sky” registrata per le BBC Sessions, tra le luci del tramonto che rimbalzano sul telone di sfondo con la cattivissima illusione ottica della copertina dell’album e una gigante palla bianca sospesa sulle loro teste su cui sono proiettate le loro patologie visuali. Il resto lo fanno delle luci verticali modello catarifrangente gestite con sadismo e il cui potenziale migliorerà con l’arrivo del buio. Come del resto, la performance. Un’ora e mezzo scarsa di ininterrotta e insostenibile allucinazione multisensoriale. Un flusso sinestetico di luci, bagliori, stridori ed echi che aliena e stordisce inoltrandosi nell’umida notte ferrarese. Prevale un approccio quasi da jam-session in brani che dilatano e destrutturano le loro tipiche sonorità ossessive con le voci post-wilsoniane di Avey Tare e Panda Bear che si incastrano alla perfezione nel fragore primordiale da cui emergono le trasfigurazioni rumoriste dei neo-folk “Leaf House” e “Who Could Win A Rabbit” da “Sung Tongs”. Mancano i classici, le uniche concessioni pseudo-pop oltre ai buoni sentimenti Sixties di “Summerclothes”, sono le svampite catalessi da “Strawberry Jam”, “Chores” e “Fireworks” nella sua versione piacevolmente disturbante, corretta e allungata con “Essplode” infilata in coda. Difficile distinguere le canzoni in questa assordante trance tenuta sempre pregevolmente in piedi da Geologist che sembra quasi tranquillo e rilassato rispetto ai due invasati alla sua sinistra. Tra i mistici bagliori delle canzoni dall’ultimo “Lion In A Coma”, “Guys Eyes”, “Daily Routine” e “Brothersport” spiccano le ultime due. I Beach Boys sintetizzati in scenari psichedelici da colonna sonora post-catastrofe del 2012 per un live assolutamente sorprendente considerate le non rare critiche sulle loro performance ai limiti dell’ascoltabile.
Potrebbe benissimo finire qui, ma anche no. Scrollandosi di dosso a fatica i postumi della trance animalcollettiva, si attende infatti con altrettanta trepidazione il ritorno dei Tv On The Radio che all’estero dopo il successo di “Dear Science,” sono diventati quasi un fenomeno di massa, mentre in Italia fanno ancora fatica a sfondare. Così la piazza non si riempie più di tanto e prevale un freddo distacco che in parte disperde il calore di un’atmosfera resa rovente dall’improbabile street-band. Ma, considerato il fatto che sia la prima ma non l’unica data italiana dell’accoppiata, se non altro per una volta ci si può godere il concerto senza i proverbiali rompicoglioni.
Fin dall’introduttiva e sommessa “Love Dog” questi neri di Brooklyn che si son rifiutati di darsi al rap per inventarsi dal nulla un’inusuale formula fatta di post-punk, soul, electro-pop e suggestioni wave tra Talking Heads e Bowie, emanano un calore quasi mistico. Il fuoco della musica afro-americana permeato di soluzioni stilistiche quanto più possibile moderne e a volte distanti anni-luce da quella tradizione, non solo per la presenza di un sassofonista bianco e del geniale polistrumentista-produttore David Sitek (Yeah Yeah Yeahs, Liars, Foals, Telepathe). Il frontman Tunde Adebimpe ha infatti oltre a un’ottima vena melodica una varietà di interpretazione non da poco, mentre il pittoresco chitarrista barbuto Kyp Malone erige col resto della cricca un ronzante tappeto shoegaze che riempie il suono anche nei nuovi brani. In teoria più puliti e minimali nelle deviazione sintetica da cantautorato art-pop di “Shoot Me Out”, “Crying” o della spietata “DLZ”. L’incontenibile ritmica diventa irresistibile nelle detonazioni funk di “Red Dress” e “Golden Age” con un sax dissonante e ubriaco a colorare un sound perfettamente equilibrato nei suoi rumori di fondo. Quello che non dà una platea un po’ tramortita, per fortuna lo danno loro con le trascinanti esecuzioni di “Dancing Choose” e “Halfway Home” accomunabili per furia e grinta alla nevrotica e più “antica” “The Wrong Way”. O che comunque meglio si accostano alla visceralità selvaggia del precedente “Return To Cookie Mountain”, album incredibile da cui ripescano purtroppo solo due brani, l’inno “Wolf Like Me” e la suggestiva “Province” che senza David Bowie un po’ inevitabilmente ci perde. Altre chicche del passato, gli shoegaze in chiave soul di “Young Liars” e della splendida “Staring At The Sun” che chiude la serata appiccicando dopo gli Arcade Fire un’altra targa commemorativa sotto la scritta “Piazza Castello”.
Tv On The Radio (foto Stefano Folegati)
Animal Collective
What Would I Want Sky
Leaf House
Summertime Clothes
Guys Eyes
Who Could Win A Rabbit
Chores, Fireworks/Essplode
Daily Routine
Lion in a coma
Brothersport.
Tv On The Radio
Love Dog
Red Dress
The Wrong Way
Golden Age
Crying
Wolf Like Me
Halfway Home
Shout Me Out
Young Liars
Province
Dancing Choose
DLZ
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Family Tree
Staring At The Sun