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Visti dal vivo fino ad un paio d’anni fa, gli Arctic Monkeys davano l’impressione della sprovveduta college-band strappata dal proprio habitat di feste liceali e teletrasportata di peso su importanti ribalte festivaliere, in pasto a migliaia di ammiratori urlanti. Forza dell’Hype e della sua sacra corte, che in Inghilterra stringe stampa musicale e discografia indipendente in un patto d’acciaio nel nome della coolness: quando però smetti di gingillare i cortigiani e la caccia al pupillo più “in” della stagione viene ufficialmente riaperta, quel marchio che ti ha spianato la strada diventa improvvisamente uno stigma antipatico da portarsi appresso. Come quella degli enfante prodige troppo cresciuti, la vita delle ex next big thing è insospettabilmente dura e solo una buona dose d’intelligenza strategica può salvarti dall’oblìo generale.
Intelligenza che, nonostante le loro giovani età, gli Arctic Monkeys sembrano possedere in quantità sufficiente, se hanno approfittato della luce dei riflettori per ampliare e diversificare i propri interessi (i Last Shadow Puppets, progetto parallelo del vocalist orientato al crooning anni ‘50) e per farsi qualche amicizia che potrà tornargli utile in futuro.
E’ una mossa ben studiata, per esempio, dividere il mixer per la produzione del proprio terzo disco fra due personaggi quasi speculari come l’affezionato James Ford e il neoestimatore Josh Homme, testa delle ormai offuscate Queens of the Stone Age: se il primo infatti assicura l’evoluzione rispetto ai capitoli precedenti e la bontà del lavoro sulle canzoni, l’altro si curerà di garantire che non vada perso quel tocco rock’n’roll che ha reso la band cosa gradita ad intere legioni di kids. Alex Turner, a sua volta, prosegue il discorso di scrittura iniziato proprio con i Last Shadow Puppets, stila arrangiamenti tutt’altro che scontati e firma liriche sempre più intriganti.
Ammesso che i quattro abbiano maturato l’effettiva capacità tecnica per poterli suonare senza avvalersi di qualche stregoneria discografica, i dieci pezzi di “Humbug” sono complessi e ben studiati, evitano quasi sistematicamente le facili uscite pestaduro del passato e suggeriscono addirittura qualche rimando ai Teardrop Explodes di Julian Cope – cosa che dovrebbe suonare lusinghiera per ogni combo britannico che si rispetti. La patina dark portata in dote da Homme completa la crescita e contribuisce significativamente ad allontanare i ricordi più postadolescenziali. Forse non basterà ancora per parlare di “buon disco” in senso assoluto, ma è senz’altro un passo in più per assicurarsi una lunga vita lontano dai venditori del fumo di Londra.