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A tre anni dall’omonimo e fortunato (tranne che dalle nostre parti, a ben vedere) debutto (edito dalla Bella Union nel 2006), tornano gli Howling Bells, con un secondo attesissimo album che in teoria avrebbe fondatamente potuto trasformarli, a detta di molti, in un fenomeno di dimensioni planetarie. Le loro sonorità molto dreamy e cremose, caratterizzate da legami più o meno evidenti di parentela stilistica con band come Cocteau Twins e Mazzy Star, uniti ad un innata propensione alla facile melodia pop che potrebbe far a tratti venire in mente i Cardigans, sembravano rappresentare una mistura letale pronta a deflagrare nell’etere radiofonico-televisiva. E invece è successo che la band capitanata dalla conturbante Juanita Stein (un po’ Jane Birkin, un po’ Kylie Minogue, visti e considerati i natali australiani) ha preso un bel po’ di mazzatelle quasi ovunque, giornalisticamente parlando. Quello che si dice godere di pessima stampa. In sintesi estrema ciò che molti hanno rimproverato al gruppo è di aver vigliaccamente ripiegato verso un indie-rock semplicistico e troppo stereotipato per poter suscitare fremiti di reale godimento sentimentale o anche solo un minimo barlume di alone seduttivo.
L’analisi, una volta ascoltato per intero l’album più e più volte, risulta vera e condivisibile, ma solo in parte, nel senso che “Radio Wars” è di sicuro inferiore al disco che lo ha preceduto, risultando forse più debole e discontinuo in alcune sue idee, ma ad essere onesti canzoni buone se ne possono trovare più d’una. Il problema è allora capire cosa uno stia cercando, come del resto troppo spesso capita. Per dire, gli Howling Bells non hanno fatto la fine dei Guillemots con il loro secondo “Red”, una sorta di brutale harakiri mondano a base di champagne, smoking, scarpe lucidate per le grandi occasioni e Chris Isaack. Da questo punto di vista possiamo osservare come il disco parta piuttosto bene con una serie di schegge di pop psichedelico (il trittico “Treasure Hunt”, “Cities Burning Down” e “It Aint’T You”) agghindate da melodie godibili nella loro paradossale prevedibilità e scontatezza. Poi la scrittura inizia a perdere un po’ di qualità (la lanugine orchestrale di “Nightingle” non può certo attutire la rovinosa caduta di ogni entusiasmo che caratterizza il suo ascolto), riprendendo quota in singoli momenti abbastanza isolati gli uni dagli altri. Buoni momenti ad ogni modo, come “Let’s Be Kids” , “Into The Chaos” o l’elettronica “Golden Web” (una delle proposte migliori). Tutt’intorno canzoni-cuscinetto che hanno la consistenza sdelle imbottiture di un pacco postale con dentro un lampadario di vetro. Sullo sfondo la netta sensazione che potevamo avere potenzialmente tra le mani i nuovi Slowdive incrociati ai Garbage dei primi due album e che invece, almeno per stavolta, dovremmo accontentarci dei Pretenders che rileggono l’album di Scarlett Johansson (o viceversa). Eppure (e questa è la nostra speranza segreta) potrebbe non essere ancora troppo tardi per ricredersi.