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Come sin dall’inizio qualcuno ci ha insegnato (ma chi poi?), la differenza ancestrale tra rock americano e corrispondente rock inglese risiede essenzialmente nella problematica questione della verità o, rubando per pigrizia una scheggia terminologica alla filosofia heiddegeriana, di quella che potremmo definire la questione dell’”autenticità”. Mentre (quasi tutte) le band americane sembrano infatti e in ultima analisi praticamente ossessionate dalla preoccupazione di essere “vere”, convogliando attraverso la materia mobile della propria musica un’espressione diretta e non mediata da filtri e strategie predeterminate di ciò che cova e si dibatte nel profondo di sé e del mondo, i gruppi britannici al contrario prediligono da sempre un approccio più estetizzante e “costruito”, non avendo particolari problemi di coscienza a rapportarsi con pratiche sulla carta esecrabili come finzione, pantomima o, addirittura, recitazione.
Su questo tema è stato scritto molto da molti (Simon Reynolds, critico inglese trapianto in America, in testa, ma anche il recente volume “Musica di Plastica” edito da Isbn) e non è forse il caso di gettare un’ombra di sospetto sullo statuto problematico e indecidibile di un concetto sempre pericolosamente ingannevole e “bugiardo” come quello di “verità” (ad esempio nell’odierno tam tam del gergo nazional-talk show-politico-tronistico, quante persone si aggrappano all’espressione “Io Sono Una Persona Vera”, come ad uno slogan totalmente svuotato della benchè minima affidabilità? Sin troppe…). Tutto questo per dire in parole poverissime che una band inglese media non ha sensi di colpa di particolare entità a mettersi un po’ di trucco negli occhi o, almeno talvolta, a guardarsi nello specchio con un filo di compiacimento puramente narcisistico, conscia di recitare “una parte” ben scritta e interpretata.
Tutte queste considerazioni ci fanno discreto gioco parlando dei Wild Beasts, quartetto di Kendal con già all’attivo un esordio sempre targato Domino nel 2007 (“Limbo Panto”, da non perdere), e una proposta musicale sopra le righe che si dimena instabilmente tra l’art pop finemente ironista degli XTC, la nevrosi postmoderna e decostruttiva dei Talking Heads, il post-punk iperletterario e sensibilista di Orange Juice e Josef K e, volendo esagerare, l’Opera di Puccini e Leoncavallo. Capitanati dal sublime falsettista Hyden Thorpe, i Wild Beasts tendono a creare un cortocircuito virtuoso tra le categorie che abbiamo poco fa utilizzato, sintetizzando un’ipotesi intellettualmente audace e ambiziosa di pop surreale in cui la farsa e le viscere convivono senza conflitto, in cui l’urlo bestiale (il colore vivido della pittura fauvista che la band richiama nel nome) e l’aria teatralizzante del bel canto si specchiano e amplificano vicendevolmente l’uno nell’altra. Il loro nuovo “Two Dancers” trabocca di melodie e motivi di un’eleganza distorta e farneticante, all’insegna di un dandismo pericolosamente lirico e cerebrale, nutrito di testi (spesso bellissimi nella loro stridente sfrontatezza e sfacciataggine) che paiono usciti dalla penna inacidita di un Aldo Busi britannicizzato.
L’alternanza tra gli alti altissimi di Thorpe (un cantante non per scherzo) e i bassi profondi di Tom Fleming (anche bassista), il dialogo tra gli arabeschi neobarocchi di esili chitarre wave e l’ossificato minimalismo delle partiture ritmiche, la densità trasecolata di laboriosi intrecci strumentali ai limiti del pittorico (si ascolti la suite-capolavoro “Two Dancers” articolata in due movimenti), riescono nel complesso a creare un amalgama sonoro di rara efficacia poetica, che si riflette nel tratto grafico nervoso e pungente di canzoni come “The Fun Powder Plot”, “Hooting & Howling”, “All the King’s Men” o “Underbelly” . Dei raffinati stilisti della melodia questi Wild Beasts, capaci però al contempo di iniettare in questo loro del tutto caratteristico formalismo vanitoso e cantilenante il veleno di un’inquietudine e di una desolazione morale che lascia a bocca aperta in più punti.
“Two dancers” è, cercando di tirare un po’ le somme del discorso, senz’altro uno dei migliori lavori di pop alternativo (e intelligente!) attualmente in circolazione, difficilmente catalogabile, praticamente impossibile da liquidare nel novero di mode furbesche sin troppo passeggere e, soprattutto, un album capace di riconciliare i detrattori storici di certo rock pretenziosamente intellettualistico made in Britain (tacciato di scarsa “autenticità”) con le ragioni di una musica che coniuga in sé gli apparentemente antitetici anima(lità) e stile, regalando risultati che valgono decisamente il costo del biglietto.