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L’instancabile Amaury Cambuzat torna a farsi sentire con due nuovi compagni, Diego Jeko e Pier Mecca, e con un nuovo progetto all’insegna dell’improvvisazione spontanea e della sperimentazione krauta. Niente che stupisca, dunque, data la sua storia. Ma se la durata complessiva di cinque giorni per registrazione e missaggio, in quel del Red House Recordings di Senigallia, esclude qualunque sovrastruttura, è anche vero che trovare un senso per un disco così pare difficile, schiacciato com’è tra il già sentito e l’indefinito. L’umore generale proviene dagli esordi della band madre, gli Ulan Bator, mentre la modalità (s)compositiva non è poi così dissimile da quella dei Faust, che Cambuzat si diverte a frequentare da qualche tempo. Purtroppo il risultato è quello di avere otto brani che per la maggior parte girano su sé stessi senza evocazione né direzione, con la brillante eccezione della marcia apocalittica di “Jeux de Promesses”, che sembra perfetta per accompagnare la fine del mondo, o la fine di un amore, tra foschie disperate.
Un mezzo passo falso per uno dei personaggi più interessanti, irrequieti e significativi della musica indie (nell’accezione originaria) europea, oppure una semplice valvola di sfogo concessa prima di portare a termine l’ultimo lavoro della creatura principale.
Ma è pur sempre vero che il senso di un progetto simile, più che su disco, va cercato nel cerimoniale del concerto. Per cui, se il disco non entusiasma, il giudizio sugli artefici è rimandato alla prima prova dal vivo.