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Malgrado, o forse proprio grazie a vent’anni di distribuzione carbonara (solo di recente una serie di ristampe su Feraltone è riuscita a far giustizia sugli scaffali) e una qualità di registrazione sempre poco più che ascoltabile, attorno a Daniel Johnston si è creato un culto ristretto ma decisamente accanito: tra i molti adepti illustri si contano nomi del calibro di Jack White, Kurt Cobain, Beck…tutti musicisti in pericoloso bilico fra underground e mainstream, che in Johnston hanno trovato un popwriter cristallino che si rifiuta di diventare popstar, prediligendo a passerelle e sale d’incisione professionali la propria stanza dei giocattoli. .
Ebbene, a costo di urtare la sensibilità di tutta la pletora ammiratrice in un colpo solo, lo diremo: con l’avvicinarsi dei sessanta Daniel Johnston meritava, finalmente, un’incisione in alta fedeltà. Pieni poteri, quindi, al nuovo produttore-badante Jason Falkner, che prosegue un lavoro di riarredo inaugurato già da Mark Linkous (Sparklehorse) un paio di capitoli orsono. Secondo le dichiarazioni di Falkner, l’obettivo era “estrarre le sinfonie rock and roll dalla prolifica mente musicale di Daniel e ricavarne delle canzoni da incidere a livello professionale e da produrre con tutti i crismi”. I risultati gli danno ragione: “Is and Always Was” si muove in direzione diversa rispetto a “Fear yourself” ma non ha i toni dreamy pop che qualcuno aveva paventato. Si limita a tirar fuori una chitarra o una band intera quando il brano lo richiede, senza mai tentare la carta dell’ultraproduzione. Ne escono passaggi che fanno intravedere le parentele con il Neil Young elettrico (“I had lost my mind”) e anche qualche chicca, come quella dall’autoesplicativo titolo di “Fake records of Rock’n’roll”: un numero hard rock alla Kiss interpretato con quella serena naivetè che dal nostro passerà poi felicemente in eredità ai Pixies.
Restano in bassa fedeltà, invece, la voce del californiano, che nemmeno un esercito di software da ultima generazione potrebbe – né dovrebbe – migliorare, e un immaginario da pazzarello (niente da ridere, è questione clinica!), al suo meglio quando riesce anche ad essere autoironico (“Mind Movies”, “lost in my infinite memory”…).
Se avesse retto la qualità della tripletta inaugurale per tutta la sua durata, “Is And Always Was”, sarebbe stato un capolavoro della pop song a tutto tondo. Così non è stato, ma rimane comunque un’infilzata di brani più che piacevoli e con l’innegabile pregio di allungare una mano a quelli che per il lo-fi non hanno mai avuto orecchie: da oggi, anche a loro sarà data la possibilità di godere del talento di Daniel Johnston, andandolo a trovare lì dov’è, dove era da sempre e dove – ci auguriamo – resterà ancora per un bel pezzo.