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“Fruit Tree” non è un album di Nick Drake, ma 3. Nel 1974 Nick viene trovato morto nella propria camera, ventiseienne, forse suicida (barbiturici). Accanto al letto ticchetta a fine solco un disco con i Concerti Brandeburghesi di Bach…
Il giovane genio aveva partorito tre album: “Five Leaves Left” (1969), “Bryter Layter” (1970) e “Pink Moon” (1972). I contemporanei li ignorarono, o quasi; i posteri gli hanno confezionato un’opera omnia da culto (“Fruit Tree”, appunto). Mito meno eclatante di altri, ma più sentito, privato, tenace, silenziosamente condiviso. Pochi parlano di Nick, ma se chiedi in giro, molti lo conoscono. È che non viene proprio di strombazzare la cosa: le sue canzoni si tengono dentro.
Lungo i 3 album (o 4, se incappi beato nel cofanetto con gli inediti postumi) si articola una trigonometria delle cose interiori, delle piccole precise emotive cose. Che come angoli, segmenti, tangenti, forme del sentire, variano, si proporzionano e rapportano.
L’amore e la natura invadono i testi; Bach e Ravel gli arrangiamenti. La chitarra folk ora è nuda ai limiti della desolazione, ora è ricamata di strumentale e vocine beat e non importa cosa. La voce di Nick vibra sperduta ma sicura, timida ma piena, triste ma fiduciosa, un ossimoro in sé. Equazioni di sentimenti, da cui si ricava che guardarsi dentro e comunicare possono essere la stessa cosa.