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Ora, tutto sta in quel che è lecito attendersi da una band che la sua maggiore età l’ha bella che compiuta e che le cartucce migliori le ha sparate agli esordi o giù di lì. Se la risposta è ‘dischi onesti e nulla più’, l’album omonimo del 2007 – altrimenti noto come “il disco dell’avocado” – batteva la strada giusta: i Pearl Jam si lasciavano alle spalle la psichedelìa appassita dei capitoli precedenti e tornavano a fare ciò che da sempre sanno fare meglio, vale a dire rock dalle moderate tinture hard e dalla forte vocazione melodico-autoriale. Nessuna pretesa, tante buone scritture e benissimo così.
La prima avvisaglia che le cose avrebbero presto assunto un’altra piega stava forse già nell’annuncio del nome di Brendan O’ Brien quale produttore “associato”, già al lavoro su “Yield” e da poco tornato al fianco del gruppo per rimettere le mani ai nastri di “Ten”, in occasione del suo primo decennale. Nel genere “musica da grandi platee” O’ Brien parrebbe addirittura il responsabile della deriva dell’ultimo Springsteen verso il pop-rock mellifluo e ruffianone di “Working on a Dream”, da cui le comprensibili preoccupazioni sul nuovo nato. In realtà “Backspacer” non risente più di tanto delle sue cure, se non in un’eccessiva levigatezza dei suoni. Il danno piuttosto lo fanno le canzoni e i loro legittimi proprietari, cedendo a ciò che avevano elegantemente evitato solo un paio d’anni fa: la nostalgia canaglia e la logica del “back to the roots” che si annida in tutto l’Lp, fin dal titolo scelto. Ma nel riguardare da vicino alla propria adolescenza, la band di Seattle la rifà idealizzata, patinata, affatto diversa, perlomeno da come la ricordavamo noi: “Backspacer” strafà, mostra i muscoli e mette il testosterone al di sopra delle canzoni, quelle che ai Pj della prima ora non sono mancate mai. La dicono lunga i titoli in scaletta, roba da ricettacolo delle rock-banalità (“Speed of Sound”? “Supersonic”?? “Johnny Guitar”???). E se quella della tematica adolescenziale non è certo una novità nel canzoniere di Vedder, lo è invece parlarne in termini effettivamente adolescenziali: considerato il complesso di musica e parole, tra l’ascolto di un “Jeremy” e quello di un “Johnny Guitar” corre la stessa differenza che può passare fra le pagine del “Giovane Holden” e un bestseller pruriginoso per sedicenni.
Nella mancanza generale di un songwriting incisivo, si fanno perdonare giusto il crescendo di “Unthought Unknown” e la conclusiva “The End”, guardacaso due grandi performances messe sul conto del vocalist. Non è mai carino da parte di un rockfan auspicare la messa in proprio del leader di una band, ma in questo caso – vista anche la qualità della prima prova solista di Eddie Vedder per la colonna sonora di “Into the Wild” – vien naturale domandarsi se non sia il caso di mandarlo in licenza un pochettino, il nostro cantante: tanto per riavere indietro il piacere di canzoni della vecchia caratura. Quel di cui il rock d’autore americano sente il bisogno, ora come ora, sono nuovi Grandi Vecchi e non altri vecchi che si fingano nuovi…