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Ascoltare tutto “Love” così, di filato, senza nemmeno fiatare, con “Nirvana” che parte subito e ti sorprende, con te che tenti di godere di ogni sfumatura e ti svegli quando si è arrivati a “Black Angel”, è stato difficilmente descrivibile. Per chi ha amato oltremisura questo disco come il sottoscritto la parte iniziale del concerto di Bologna, dedicata al rifacimento integrale – in ordine – del loro capolavoro del 1985, è stata come un unico brano lungo in maniera indefinita, potevano essere due minuti come un’ora ma la sensazione è stata quella di un unicuum completo ed inscindibile come lo è una sola opera. Meravigliosamente bella.
Merito dei Cult di oggi, comunque, e della loro capacità di suonare in maniera tremendamente fresca nonostante gli anni sul groppone ben materializzati dalla pancia di Ian Asbury versione barbone-Jim Morrison. In realtà, nulla di che: è vero che quando gli anni bussano alla porta i rocker sono più credibili se sono magri con (quasi) tutti i capelli al loro posto (Nick Cave insegna), però anche questo Asbury un po’ appesantito ha il suo fascino maudit, forse dovuto all’associazione mentale immediata al periodo parigino del frontman dei Doors, che gli conferisce un’aura ancora assoluta sul palco. Confermata dalla sua voce, inaspettatamente in forma dal quarto pezzo in avanti (sul primo brano non inizia a cantare al momento giusto essendo intento a sproloquiare con i fonici in merito a misteriose problematiche da palco che mai sapremo, spaccando un cembalo per la rabbia e tenendo la voce frenata fino a “Love” compresa) che ci smentisce, in questa serata bolognese, quella leggenda metropolitana che già girava dagli Anni ’80 secondo cui la voce di Asbury non teneva la distanza di un concerto.
Ma è un altro il mattatore del live, e anche più: Billy Duffy, in perfetta forma fisica, è stratosferico. Dispiace usare termini così esagerati, potrebbe sembrare la recensione del classico fan cascato lì che non ha capito un cazzo perché si è fatto prendere solo dall’emozione, invece non è così. L’emozione c’è – e per fortuna! – ma è un’annotazione oggettiva la precisione stilistica di Duffy che suona ogni specifica nota tirandola al punto giusto, né un frazione di semitono in più né in meno, come se non avesse fatto nient’altro da vent’anni a questa parte che suonare “Love” ininterrottamente. Come se di notte si ripassasse le sue parti per ripeterle immutate, granitiche, non per cocciutaggine o mancanza di passione ma con quella cura tipica dei perfezionisti che credono fermamente in loro stessi, nella bellezza delle cose che fanno. Non è mai stato un tecnico agli eccessi, Duffy, e neanche dopo il concerto di Bologna lo si inserisce in quella schiera: piuttosto la sua figura chitarrista acquista un valore da Storia del Rock come arrangiatore insostituibile ed esecutore perfetto, uno che è riuscito a donare ai brani una carica che solo un rigore sopraffino e accurato può darle. Poche volte si è visto un chitarrista così, e in quel così ci sta tutta l’unicità di Billy Duffy.
Tornando ai brani, “The Phoenix” è la migliore del lotto-“Love” mentre sono fuori classifica l’immensa “She Sells Sanctuary” e la delicata “Brother Wolf, Sister Moon”, i due apici nel coinvolgimento – rispettivamente – “da esplosione” e “da rapimento” della platea gremitissima di un Estragon praticamente tutto esaurito.
Terminato il viaggio nell’Ever-Kalporz “Love”, i Cult si concedono una breve pausa e poi tornano sul palco puntando sul periodo “Electric” (“Electric Ocean”, “Wild Flower”), che riscuote il medesimo successo così come i brani tratti da “Sonic Temple” (“Sun King”, “Fire Woman”). C’è anche il tempo per un paio di pezzi meno conosciuti – “Rise” da “Beyond Good And Evil” (2001) e “Dirty Little Rockstar” da “Born Into This” (2007) – e per il gran finale di “Love Removal Machine”.
Si esce pensando che questo concerto ha proiettato i Cult, almeno per noi, in quell’immaginario Olimpo del Rock abitato da gruppi che esisteranno sempre nel loro fulgore alto e immutato, non scalfibile da niente e nessuno. Magari non nell’attico degli Zeppelin o nella villa degli AC/DC, ma in una bella capanna a guardare dall’alto in basso una miriade di band che non hanno mai raggiunto quella vetta, beh, questo è proprio il minimo.
(Paolo Bardelli)