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Non esiste probabilmente un altro gruppo, tra i contemporanei, al centro della scena indipendente quanto i Deerhunter. Uscite e progetti paralleli (solo quest’anno l’EP Rainwater Cassette Exchange e l’ottimo side-project Lotus Plaza del chitarrista Lockett Pundt) che si inseguono mentre “Microcastle” alla distanza si rivela sempre di più uno dei pochi capolavori originali in un decennio di rock quanto mai derivativo e nostalgico.
Bradford James Cox, in tempi non sospetti, aveva definito la loro formula una sorta di ambient-punk per il connubio perfetto tra toni e atmosfere eteree e gli incastri ruvidi di chitarre e ritmiche in piena tradizione post-punk/shoegaze. Nel suo secondo LP sotto il nome di Atlas Sound è la prima componente a prevalere per una splendida raccolta di ballad malate e stridenti che arricchisce l’affascinante costellazione Deerhunter. “Logos”, ennesima vittima del file-sharing, era già noto da qualche mese, sbucato fuori nel profilo mediafire del compositore di Atlanta, ma nella sua versione definitiva distribuita in Europa da un marchio-doc quale la 4AD rende effettivamente meglio.
La solare “Walkabout” realizzata insieme a Noah Lennox degli Animal Collettive meglio noto come Panda Bear, nel suo incantevole fascino fuori dal tempo aveva dato un’idea fuorviante sulle tinte dell’album. Solo in “Washington” ci si immerge in quei tumulti colorati e catartici da revisione post-industriale dei Beach Boys tipica degli Animal Collective. “Shelia” è altrettanto figlia dei Sessanta, ma è deturpata della sua limpida impostazione flower-power da chitarre ronzanti in una sorta di rivisitazione garage delle dolenti gemme di George Harrison. Nel resto dell’album prevale un mood agrodolce e dimesso. L’introduttiva “The Light That Failed” suona come suonerebbero i Radiohead se fossero nati in Georgia per il suo evanescente e vaporoso confondersi di riverberi, arpeggi e voci da un’altra dimensione. Gelidi, ma al tempo stesso avvolgenti e romantici, nella decadenza di “An Orchid”, “My Halo” e “Criminals”, improbabili quanto efficaci ponti tra andature molto saccharine underground e la fatalità delle ballad degli Zombies. Canzoni che sembrano scritte tra anni ’50 e ’60, ma la cura degli arrangiamenti e la tendenza alla dissonanza le rende attuali e interessanti nel loro esplicito e mai celato intento revival.
Cox ha un’invidiabile vena melodica e compositiva, sa essere beatlesiano in “Attic Lights”, sa essere cowboy-psychedelic nella titletrack, ma dando sempre quel suo tocco iniettando suggestioni torbide e crepuscolari in ogni traccia. Spiccano infatti, in questi scenari da risposta neo-psichedelica a Nancy Sinatra/Lee Hazlewood, le sue tendenze più sperimentali e moderniste nel downtempo più votato alle soluzioni elettroniche di “Kid Klimax” e nell’altro brano con un cameo di lusso, “Quick Canal” che vede l’illustre collaborazione di Laetitia Sadier degli Stereolab. Otto minuti di ipnotica psichedelia tanto cara alla storica band anglo-francese piovono da chissà dove tra le minimali istantenee di questo “Logos”. Emergono, così, improvvisi incubi dream-pop e shoegaze su cui l’inimitabile e melodiosa voce della Sadier compenetra lo svampito timbro malato e sussurrato di Cox. Distorsioni ed echi da brivido tagliano l’aria mentre il brano si dissolve gradualmente inghiottito nei suoi stessi vortici ad alta intensità.
In definitiva ci si trova davanti a un’impagabile colonna sonora senza tempo che fa di “Logos” un must del 2009.
Pensate se solo fosse uscito a nome Deerhunter…
83/100
(Piero Merola)