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Mentre Herzog ha pensato bene di avventurarsi in un finto remake creativo del capolavoro mistico-similpornografico di Abel Ferrara, anche Bernard Sumner ha deciso di reinventarsi (ma senza esagerare) sotto la ragione sociale di “Cattivo Tenente”. Dopo la dipartita di Peter Hook dai New Order (in direzione del supergruppo Freebass che attendiamo curiosi), il chitarrista di Manchester ha deciso infatti di raccogliere forze e idee attorno ad una nuova ipotesi di band marcatamente guitar rock oriented, nella quale hanno finito per travasarsi altri pezzi sparsi di New Order (vale a dire il batterista Phil Morris e la chitarra di Phil Cunnigham) più il contribuito del nuovo Jack Evans e di niente popò di meno che Alex James dei Blur (!?), occasionalmente al basso.
Il risultato di questa imponente coalizione di cervelli non certo di primo pelo è un disco di pop rock orecchiabile che un po’ tutti si sono divertiti a prendere come bersaglio con le proprie sfrigolanti freccette al curaro, giornalisticamente parlando. Il concetto di base è quello di un brit rock discretamente radiofonico a base di chitarre jingle jangle squillanti e ritornelli corali, in cui si ritrova la sostanza della più classica tradizione mancuniana, lungo un sentiero che dagli Stone Roses si snoda fino agli Oasis (sentite il “noelrock” in quintessenza di “Head Into Tomorrow”), passando per Smiths, Inspiral Carpets, Charlatans, James e via discorrendo. Quello che forse guasta il prodotto finale nel suo insieme è qualche (evitabilissima) sdolcinatezza da FM di troppo in sede sia compositiva che produttiva, la quale finisce poi col rendere l’ascolto decisamente stucchevole oltre il dovuto.
Eppure l’inizio non è male, anzi a tratti entusiasma. I primi quattro pezzi infatti sanno avvolgere in un turbinio di melodie in progressione, con ottimi puntelli ritmici e sontuosissimi fraseggi di chitarra che ci ricordano come Sumner sia alla fin fine un più che ottimo esploratore delle possibilità espressive del proprio strumento (e questo già ai tempi gloriosi dei Joy Division). Piacciono soprattutto il singolo “Sink Or Swim” e “Summer Days On Holidays”, solare ed elegiaca come lasciarsi in Costa Azzurra (non l’abbiamo mai fatto, ma ce lo immaginiamo così). Poi il disco tende ad afflosciarsi sensibilmente in una retorica un po’ tronfia e gozzovigliante, palleggiandosi con mestiere (ma non senza qualche affanno) tra nostalgie madchester-hacienda (“Poisonous Intent”) e astuti trucchetti da vecchie volpi abbronzate da gloriose (quanto lontane) estati ibizenche.
Alla fine non un brutto disco, ma nemmeno un’opera così incisiva e convincente come pure i presupposti lasciavano inizialmente sperare. La cosa tende nel complesso ad assumere un sapore un po’ estemporaneo e a tratti quasi superficiale. Resta l’eleganza di un grande chitarrista e la luce ancora vivida del suo sogno musicale, del tutto indissociabile dal mito della città in cui è germogliato, più di trent’anni fa ormai…