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Ma perché piove sempre su di me, si chiedeva qualche tempo fa un inglesino con la faccia da schiaffi, mentre qualcun altro, all’ombra della sua oasi, certo non aveva di questi problemi.
I Bad Love Experience, tanto dal nome che dal titolo dell’album, paiono appartenere alla prima categoria, ma poi entrano in gioco le canzoni, bagnate di pioggia, eppure determinate ad aspettare giorni migliori senza piagnistei.
I quattro vengono da Livorno, un porto come Liverpool, noterà qualcuno non allontanandosi dalla verità. Del migliore pop rock inglese anni ’60, prima cioè che i Jam lo portassero a scontrarsi col punk, si abbeverano i brani contaminati poi con influenza americane e arrangiamenti a base di tamburini, flauti, cowbell, rhodes, congas e quant’altro. L’album è uscito già da qualche mese, ma l’uscita della stampa in vinile 180 grammi per la Tannene Records, il 15 di gennaio, coincide con l’arrivo nelle sale de “La Prima Cosa Bella”, pellicola che li vede partecipare, anche nella colonna sonora, nei panni di un quartetto beat per feste sulla spiaggia d’altri tempi.
Ottima occasione per recuperare allora un disco convincente e coinvolgente, che nella sua prima metà non vuole saperne di fare prigionieri. L’attacco di “Break Away” fa venire voglia di indossare giubba rossa e Union Jack, richiamando le prodezze degli esordi di quei geni impostori degli Oasis. ”21st Century Boy”, tiro garage, farfisa impazzito e battito di mani, si rivela singolo di classe. “Somebody Born To Walk (and some to fly)”, con chitarre acustiche, organo, piano e una strofa di una certa stoffa convince appieno ed è forse il brano migliore, se lo avessero inciso i Kaiser Chiefs avrebbe fatto sfracelli oltremanica. La scanzonata “The Days” chiude la prima ondata dell’album.
Se poi il tiro sembra abbassarsi, è solo perché i nostri scelgono di giocarsi le proprie carte in territori più quieti e malinconici, continuando comunque a sorprendere. L’ottima produzione dà ampio sfogo alle varie sfumature del suono, sacrificando più o meno necessariamente qualche ruvidezza che avrebbe potuto ispessire qualche episodio. Ma sempre di un ottimo disco di quello che, in altri tempi, avremmo definito brit-rock (pop) si tratta e dobbiamo smetterla di fare sempre e a oltranza i rocchettari annebbiati dalla birra che rivendicano una schitarrata qua e là. Anche perché di fronte all’irruenza alla Blur di “Dear M Boy” o all’oscurità di “Walking On My Feet”, in contatto con gli stessi demoni che perseguitano i Movie Star Junkies, c’è di che rimanere appagati.