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Sarebbe ora di rendersi conto che in Italia, tra sottobosco provinciale e marciapiedi di periferia, è da un po’ che sta accadendo qualcosa nel campo di un certo modo di suonare pesante. E se gli epicentri naturali di certe mutazioni sono il Piemonte e il Veneto, è dalle Marche che escono alcune delle realtà più sorprendenti. Su tutti, i Gerda, da Jesi, arrivati al terzo album distribuito in vinile con annesso cd (occhio alla gerarchia), senza titolo e coi brani semplicemente numerati, a confermare la devastante iconoclastia dei quattro.
Per orecchie già sensibilizzate, ovviamente, a nevrosi post-hardcore dai risvolti mathematicamente grind quasi-black. Ovvero macigni Converge-nti in oscuri abissi che farebbero contenti anche i molti fan dei Wolves in the Throne Room.
Questa volta, rispetto all’esordio omonimo e al precedente “Cosa Dico Quando Non Parlo”, tra i dischi migliori in Italia del decennio e anche più, certe inclinazioni post-rock, a livello chitarristico smussano e amalgamano la normale tendenza al caos dei brani irrigidendola anche in strutture complesse, con una sessione ritmica siderurgica, una chitarra che distribuisce fumogeni e manganellate e una gola tagliata che strilla odio in mezzo ad una piazza devastata come fosse l’ultima cosa da fare. Il risultato è vagamente più prossimo quindi agli eccellenti Fine Before You Came (non riesco più a sentire il loro splendido “Sfortuna” tanto fa male), anche se qui dolore e rabbia hanno origine ben diversa e il risultato è decisamente più violento, con una strana coesistenza di continuità con la storia autosufficiente dell’hardcore italiano e di contiguità con la progressione di quello internazionale (coi Neurosis, ad esempio).
Quello dei Gerda è oggi uno dei capitoli più entusiasmanti della musica pesante non solo nell’angusta e triste penisola in cui ci troviamo.