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Con Taranta Terapy non ci si annoia. Il sestetto calabrese concilia brillantemente impegno e spensieratezza, cantautorato e rock più accattivante. È un album veloce “Terra K’Abballa”, quasi come un classico disco punk di una volta.
Ma qui abbiamo a che fare con un punk eretico in versione etno-folk, eclettico e interstilistico. In realtà, a ben vedere, di punk c’è più che altro la carica adrenalinica, una caratteristica tipica della band calabrese fin dagli esordi nel 2001, che trova la sua naturale valvola di sfogo nella dimensione live. Qui la taranta non va intesa letteralmente: è più che altro un riferimento culturale alle proprie radici, alla Madre Terra e alla tradizione del ballo; una sorta di antico totem che stende le ali protettive sulle spericolate evoluzioni musicali dei suoi figli. Il risultato è che si è invogliati a ballare lungo quasi tutti i 36 minuti dell’album, benché a rigore non si stiano ascoltando dei ballabili: uno riuscitissimo spettacolo di illusionismo nel quale trovano posto anche un po’ di funk e soprattutto di reggae (non solo in “A Matina”).
Sono un po’ prestigiatori i nostri eroi: cantano la propria terra, con le sue magagne (“A Terra D’A Mafia”) e i suoi valori, ma è un po’ come se cantassero la terra di tutti. Soprattutto lo fanno senza alcun manierismo, moralistico o giustificatorio che sia, e non tralasciano una giusta quantità di sana leggerezza e ironia. Insomma: Vlad (voce), Paco (chitarra), Pp (basso), Miliu (batteria), Gigi (tromba) e Joe (tastiere), qui supportati da colleghi come Cesko di Après La Classe e Daniele Sepe, fanno musica impegnata senza darlo a vedere. Lo conferma il fatto che “Terra K’Abballa”, con questo suo titolo apparentemente tanto leggero, sia in realtà il terzo episodio, dopo “Odissea Nella Terra Del Vento” (2005) e “MaediterraneaMente” (2007), di una progettata tetralogia dedicata agli elementi cardine del Sud geografico: vento, mare, terra, fuoco.
Non si tratta di un vero concept bensì di 12 pezzi con un comune denominatore più o meno esplicitato: la Terra, intesa sia come paese d’origine, come patria, sia come Gea, la terra che nutre e sostenta: contraddittorie madri/matrigne che mostrano due volti, quello tenero, accogliente, benevolo e fruttifero e quello arido e sterile, corrotto e devastato dalla criminalità. Fatti i dovuti distinguo, un dualismo ormai esteso a tutto il nostro malmesso stivale, che Taranta Terapy canta da par suo alternando rabbia e affetto, allegria e toni più cupi. “A Terra D’A Mafia” è una “Father & Son” meridionalista, nella quale, all’ispirazione e all’irrequietezza interiori ingenuamente giovaniliste e postsessantottine di Cat Stevens, si è sostituita una più concreta, tragica e drammatica necessità socio-economica; “Juri”, impreziosita dal sax di Daniele Sepe (che collabora anche in “A Terra…”), ribadisce questa coscienza critica, all’insegna di un rapporto di amore/odio che talvolta trasmette un inequivocabile senso di impotenza e di stallo, superato grazie al vigore e all’ottimismo naturalmente veicolati dai suoni della patchanka, che non parlano certo il linguaggio della rinuncia. In questo contesto musicale un “lento” dalle influenze pop come “Ciao” appare un po’ troppo isolato, oltre a spezzare il ritmo e l’andamento complessivo dell’album. “Bona Simenta” e “Come Polline” evocano palesemente la grande protagonista di questo bel disco, che è insieme presente e assente, a volte in primo piano a volte sullo sfondo: un convitato di pietra che Taranta Terapy si incarica di vivificare.