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«The truth is something no one really wants to hear you say» canta Oliver Everett ad un certo punto di “Nowadays”. È uno di quei versi capaci di spiegare tutto. Non solo la canzone, non solo il senso dell’album, di come sia nato e di come il divorzio del cantante abbia influito sugli ultimi anni degli Eels. È il senso di una carriera, di una parabola che ha regalato alcuni degli album più belli, intensi e dolenti degli anni Novanta, di una vita passata a cercare di capire il senso delle cose e delle azioni. “E” è sempre andato alla ricerca di se stesso, come uomo, come persona, come artista, come musicista.
“End Times” è lo yang di “Hombre Lobo”. Il blues nervoso, elettrico, destrutturato, venato di rock’n’roll lascia spazio a quel genere di ballata meditabonda e introspettiva di cui si erano perse le tracce qualche tempo fa. Un po’ come uno shock. Un recensore accorto, su un mensile italiano di un certo livello, parlando del disco, lo accosta nientemeno che a “Third” dei Big Star. Forse esagera – se gli Eels han fatto qualcosa di anche solo vagamente simile a “Third”, quello è “Electro-Shock Blues” – ma ti fa capire di cosa si sta parlando.
Forse l’uomo cerca di mettere assieme i cocci dopo una caduta. Del resto, “E” e la depressione sono sempre stati compagni inseparabili. A leggere la cronologia degli eventi, quasi non ci si crede: ha perso tutti. Sembra un romanzo di Dickens senza il povero orfanello di turno. Ci mancava solo il divorzio, certo, ma cosa vuoi che sia? Forse – cinicamente – era l’occasione giusta per tornare a fare i conti con la propria natura e tirare fuori musica dal profondo dell’anima.
Alla fine è questo il motivo per cui un disco come “End Times”, semplicemente, pare convincere decisamente più di “Hombre Lobo” (pur molto bello): la sua onestà intrinseca, il suo totale disinteresse a mostrare infelicità, debolezza, paura. Queste erano le caratteristiche che, negli anni Novanta, avevano posto le basi per la loro storia. Poi, certo, anche la musica è importante e se ai tempi gli Eels giocavano molto di più con il lo-fi, coi campioni e cose del genere, adesso cercano la semplicità di una struttura da folk “distorto” e filtrato (… e in questo, sì, i Big Star sono un riferimento potentissimo) puntando tutto sul messaggio e sulla melodia nella sua essenza. Pochi fronzoli, nessun aggeggio superfluo. Forse sono un po’ di parte, ma quando partono le armoniche sento anche un po’ del Dylan di “Blood on the Tracks”.
Non penso che “E” chieda a qualcuno di salutarla se la vede. Probabilmente se ne frega. La verità non interessa a nessuno. Alla fine restano le canzoni, forse l’unico mezzo per superare le disgrazie. E in questo pochi sanno essere grandi come Mark Oliver Everett.