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Tutta la semenza che poi fiorirà nella musica del Retribution Gospel Choir la si poteva forse già trovare dentro i Low, pressappoco all’altezza di “The Great Destroyer”. Il che, parlando di una ragione sociale che proprio rispetto agli stessi Low si pone come ala parallela ma totalmente autonoma, non è poi tutto ‘sto gran complimento. Ma tant’è. Del resto non era facile che un progetto dove si ritrovano fianco a fianco Alain Spahawk e Steve Garrington (due terzi esatti della compagine del Minnesota) desse adito a qualcosa di totalmente nuovo.
Man mano che la banda madre rifluiva su lidi sempre più minimali (fino alla produzione dell’ultimo “Drums and Guns”, dove si dosava con il contagocce addirittura l’uso dei canali d’ascolto), questo sideproject ha accolto il prepotente ritorno delle chitarre e delle armonie à la Byrds, le stesse che, per l’appunto, pervadevano il sopra citato capolavoro del 2002. Parla per tutte “Something’s Going to Break” che, da una sordina “disturbata”, come di vinile graffiato, esplode poi all’ultimo minuto nel fragore di un fierissimo guitar sound.
Si guarda fisso al rock degli anni sessanta, come nell’esplicito interludio che alla terza traccia auspica un “’68 comeback” a suon di assoli e rullate quasi zeppeliniani. Ma al di là di omaggi fulminei come questo, la rinascita chitarristica di Spahawk e Garrington, per quanto liberatoria possa suonare, non riesce ad essere sempre così sfacciata. Qualche inquietudine è rimasta aggrappata alle sei corde, e per questo brani piuttosto rappresentativi come “Workin’Hard” o “Poor Man’s Daughter” invocano come riferimento più prossimo il Neil Young sulla groppa dei suoi Crazy Horse.
Tra i rimandi alla storia della musica e quelli alla propria personale, non resta molto spazio per scovare percorsi originali. Nel frattempo, in attesa di sviluppi più “radicali”, chi non ha gradito le ultime evoluzioni dei Low potrà trovare un buon rifugio da queste parti: sarà comunque un gran bell’accontentarsi.