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Alla fine uno i collaboratori deve anche saperli scegliere. È facile dire: «Bella forza, è praticamente un disco di Beck» senza pensare che probabilmente Beck non collabora con tutti e, a guardar bene, gli ultimi anni di carriera del biondo Hansen non è che siano stati proprio memorabili. A maggior ragione, non è automatico che una collaborazione di prestigio porti risultati soddisfacenti. Esempio? “5:55”. Disco deludente, noioso, così terribilmente “francese” da irritare pure uno che apprezza praticamente tutto dei cugini d’Oltralpe come il sottoscritto. Non a caso, gli Air hanno ancora meno cose da dire di Beck. Lui, per lo meno, potrebbe sempre buttarla in burletta parlando di Scientology.
“IRM”, quindi. Charlotte Gainsbourg cammina sul velluto cantando con la sua voce “francese” e personale sui tappeti di pop elettronico costruito da un Hansen in stato di grazia che, dopo un improbabile ritorno alle radici del “suo” sound anni Novanta, ritorna in un luogo dell’anima particolare – quello che gli ha permesso di tirare fuori quel capolavoro di “Sea Change” – per cui la canzone diventa il mezzo per esprimere qualcosa di forte. Ed è questo il punto di forza dell’album. Se “5:55” era troppo impegnato ad essere di moda per concentrarsi sul contenuto, qui si cerca la canzone ben sapendo di poter tirare fuori qualcosa di buono.
Quello di cui stiamo parlando non è solo, e a mani basse, il miglior disco di Charlotte Gainsbourg (diciamocelo: ci voleva davvero poco). Ma di un disco a suo modo sorprendente. Non ci sono canzoni meno deboli di altre, non ci sono riempitivi, è tutto così bilanciato e sincero. Se proprio dobbiamo indicare alcune canzoni, puntiamo su “Master’s Hands”, “Heaven Can Wait”, “Le Chat Du Café Des Artistes” e “Voyage”. Ma, davvero, non c’è niente di questo disco che sia fuori posto. Ma non è quel “perfetto” pulitino che infastidisce. Qui si tratta di musica e canzoni con un’anima, un senso, un’intensità. Lei interpreta con grazia ed eleganza – è pur sempre figlia di cotanto padre e cotanta madre – Beck si limita a tirar fuori melodie e arrangiamenti che per anni si era dimenticato di essere in grado di scrivere. Forse è un doppio veicolo pubblicitario: lei usa il talento di lui per guadagnare una credibilità effettiva, lui usa l’allure di lei per uscire da un periodo in cui i critici più cattivi cominciavano a darlo per bollito. Prostituzione intellettuale nel vero senso della parola ma di cui nessuno potrebbe lamentarsi del prezzo.