Share This Article
Intercettiamo i Veils in un piovoso venerdì di Febbraio, nella breve pausa incastrata tra la fine del soundcheck propedeutico e l’inizio della loro esibizione prevista la sera stessa al Karemaski di Arezzo, giovane realtà cittadina dall’interessante programmazione musicale, in crescita costante. Raggiungiamo la band mentre sta prendendo possesso delle stanze in hotel e smaltisce i bagagli. Per l’occasione il commando kalporziano è costituito da due vecchi commilitoni: il sottoscritto più il fido fotografo Gabriele Spadini, al quale va la nostra più profonda gratitudine per l’insostituibile aiuto e supporto (peccato soltanto che non abbia potuto immortalare con qualche scatto l’intervista, per esplicito rifiuto degli interessati).
La band regalerà poi un’esibizione molto secca, tesa e vibrante, concentrata e al contempo visionaria, riproponendo gran parte del pregiato materiale contenuto nell’ultimo album “Sun Gangs”, più qualche ripescaggio strategico dal repertorio più datato (“Not Yet”, “Advice To Young Mothers To Be”, più le immancabili “Lavinia” e “The Tide That Left And Never Came Back” eseguite in solitaria, solo voce e chitarra elettrica, nell’esilissimo e atipico bis). Un concerto breve (neanche un’ora e un quarto, tra le proteste sommesse del pubblico) ma intenso, sempre nervoso e risoluto com’è nella cifra più intima e sincera del gruppo, impreziosito spesso da code strumentali di acida distorsione psichedelica che ci hanno piacevolmente sorpresi e non poco.
Quello che segue è quanto ci ha detto il gentile Finn Andrews, cantante, chitarrista e testa pensante dei Veils, un giovane “vecchio” dal fisico smagrito e allampanato, con una voce profonda e farfugliante, un inseparabile cappello a tesa larga con piuma ben calcato sulla testa, un cappotto lungo come un mantello da cavaliere d’arme posato sulle spalle e due occhi azzurri e distanti che ti guardano senza guardarti, due occhi da inglese che ha meditato a lungo osservando i mari neozelandesi fino ad impregnarsi indelebilmente del loro vivido colore.
Il tour sta andando bene?
Sta andando bene, sì. È un tour abbastanza corto. In genere stiamo in giro per parecchi mesi… Comunque sì, direi che ci stiamo divertendo, è molto piacevole per noi.
Siete stati varie volte a suonare in Italia, vero?
Sì, abbiamo suonato parecchie volte in Italia. Non saprei direi con esattezza quante. Credo comunque che il primo tour sia stato quando avevo diciannove anni, sei o sette anni fa. Poi siamo tornati varie volte, anche l’anno scorso.
Il live è una dimensione importante per voi, come band?
È praticamente tutto quello che facciamo. Ho iniziato ad esibirmi a diciott’anni e non ho fatto nient’altro da allora, in fondo. Da quando è stato pubblicato l’album, lo scorso anno, siamo sempre stati in tour: Europa, Stati Uniti, Australia, Asia. Il live è una dimensione fondamentale per noi, indubbiamente.
Ascoltando il vostro ultimo album, “Sun Gangs”, ho come avuto l’impressione che fosse caratterizzato, già a partire dal titolo, da uno sguardo più luminoso e da un umore più caldo rispetto al passato. Sbaglio?
È molto difficile per me parlare di questi aspetti. Tra l’altro è da molto tempo che non riascolto l’album. In genere quando finisco di registrare inizio subito a pensare alle cose che bisogna fare immediatamente dopo. In un certo senso è vero, mi piace pensare che sia più, come dire…Vedi, il disco precedente, “Nux Vomica”, rispecchiava i miei sentimenti piuttosto confusi di allora, c’erano infatti numerosi conflitti, non sapevo in che direzione dovessimo muoverci come band e questa cosa mi frustrava terribilmente. Ora credo che il gruppo abbia conseguito un approccio più solido e consapevole rispetto a quello che fa. Il sentimento del disco nuovo forse è giocato su un miscuglio di luce e ombra, non saprei…
Come produttore avete scelto Graham Sutton. Ti piacciono i dischi dei Bark Psychosis (di cui Sutton era leader)?
Sì, mi piacevano parecchio. In realtà volevamo realizzare un album rapidamente. Con il vecchio disco avevamo impiegato quasi quattro mesi di lavoro in studio, davvero troppo tempo. Per l’album nuovo non reputavo fosse necessario un processo di lavorazione così lungo. Abbiamo fatto una sorta di esperimento: cercare di assemblare il tutto in tre settimane a Londra e vedere cosa poteva succedere. Per l’album precedente avevamo lavorato con Nick Launay, che come sai ha una storia enorme alle spalle. Graham è più giovane di lui, è stato un po’ come ricominciare da capo. Molto eccitante.
La prima canzone del disco però, “Sit Down By Fire”, è stata prodotta da Bernard Butler (ex chitarrista dei Suede, che già aveva collaborato con la band nel primo album del 2004, “The Runnaway Found”). Come mai?
Avevamo finito di registrare con Graham ma quella canzone così com’era non mi convinceva molto e volevo reinciderla. Solo che Graham stava già lavorando su un altro disco. Così ci siamo rivolti a Bernard che ci aveva detto di apprezzare parecchio quella canzone. Credo abbia fatto un grande lavoro.
Nel disco compaiono alcuni ospiti di prestigio, come la folksinger Basia Bulat e il cantautore Ed Harcourt. Sono vostri amici?
Sì, siamo cari amici. È capitato di suonare insieme talvolta, negli anni. Basia mi piace molto, abbiamo suonato in Olanda assieme due o tre anni fa… Amo il suo modo di scrivere, trovo la sua voce molto simile alla mia, un sorta di versione femminile, apprezzo le cose che fa, anche il suo ultimo album mi è piaciuto. Abbiamo adottato un modo molto “moderno” di comporre e registrare: le abbiamo spedito in Canada, a Montreal, le parti che avevamo scritto e registrato noi, lei ha inciso le sue e poi ce le ha rispedite, senza mai incontrarci. Abbiamo sentito il tutto soltanto alla fine.
Una delle cose che più distingue i Veils è la loro relativa autonomia rispetto alla scena “indie” contemporanea. Pensi ci siano altre band di oggi che condividano con voi la vostra stessa visione della musica?
È difficile rispondere a questa domanda. Il fatto è che rimaniamo piuttosto “esterni” rispetto a tutto quello che fanno altre band oggi. Se ti devo dire la verità, sono abbastanza disinteressato a quello che va per la maggiore oggigiorno nella musica. Magari sento qualcosa e lo trovo stimolante oppure qualche amico mi consiglia di ascoltare un disco nuovo oppure ti capita di sentire un gruppo tra un soundcheck e l’altro. Ma in linea di massima non seguo le mode e non leggo le riviste musicali. Magari c’è chi lo fa e riesce anche a sviluppare un punto di vista piuttosto lucido sulla propria musica, ma non è il nostro caso, siamo sempre impegnati a fare qualcosa, tra mille difficoltà, e più che altro ci sforziamo di fare quello che ci sembra di volta in volta più opportuno, senza lasciarci condizionare.
State già lavorando su nuovo materiale?
Sì, ma molto lentamente. Non mi va di registrare un nuovo album troppo presto. Ora come ora vogliamo restare liberi da impegni troppo pressanti.
Prima vi abbiamo un po’ origliato mentre facevate il soundcheck. Stavate provando un pezzo nuovo?
Sì, stavamo provando nuovo materiale. Il soundcheck ti offre sempre un’importante opportunità da questo punto di vista.
Per finire ti volevo chiedere, come domanda di rito, quali sono i dischi degli ultimi dieci anni che più hanno contato per te.
I migliori dischi degli ultimi dieci anni secondo me, mmm… non saprei nemmeno dire quali dischi siano usciti. Ditemene qualcuno voi magari…
(Interrogati al riguardo, iniziamo a frombolare una sassaiola di nomi, a partire dai freschi vincitori del controverso mega classificone kalporzaino del decennio): i Radiohead?
Sì…direi di sì.
In un accesso di provocatoria piaggeria, vista la reticenza del nostro interlocutore, proviamo a buttargli lì un disco dei Veils stessi, “The Runnaway Found”, ma il ragazzo fa orecchie da mercante. Allora proviamo la strada delle affinità elettive e proponiamo: i National invece? Ti piacciono i National?
Sì, abbiamo suonato assieme in Portorico. Sono dei ragazzi a posto.
Interpol? Arcade Fire?
Sì, sono tutte ottime band. Il fatto è che trovo abbastanza difficile ascoltare album, soprattutto quando sono in tour. Preferisco leggere o vedere film. In genere quando leggo non ascolto musica per non distrarmi. Allo stesso modo quando ascolto musica non posso dedicarmi a nient’altro. Comunque mi piace mettere su dischi di musica solo strumentale, tipo Brian Eno o Arvo Part… cose così.
Ci salutiamo chiedendogli un po’ di suo padre, Barry Andrews, (tastierista degli Xtc e collaboratore di Brian Eno, Iggy Pop, Gang Of Four e David Bowie), col quale ci confessa di aver trascorso vario tempo, in passato, a comporre e suonare assieme canzoni, tra cui “More Heat Than Light”, che compare nel primo album dei Veils.
Un ringraziamento sentito a Marco Gallorini del Karemaski, alla management italiano dei Veils e a Federico Spadini.