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Dopo i buoni riscontri e la grande visibilità ottenuta con il precedente album “ornitologico”, “Rook”, i texani Shearwater portano a termine la trilogia naturalistica iniziata nel 2006 con “Palo Santo”, dedicando l’ultimo capitolo della vicenda al tema delle isole. Il periplo immaginario delle nuove canzoni riflette una viaggio reale, dai contorni vagamente darwiniani, che il leader Jonathan Meiburg ha compiuto attraverso alcune delle isole e degli arcipelaghi più suggestivi del pianeta (esperienza documentata in un volume fotografico in tiratura limitata già esaurito e scaricabile gratuitamente dal sito ufficiale del gruppo).
Al di là degli intenti schiettamente ecologisti e di preservazione ambientale, che da sempre nutrono e sostengono la poetica (e la politica) degli Shearwater, “The Golden Arcipelago” rappresenta senz’altro una tappa fondamentale nel percorso evolutivo della band. In esso, come al termine di una laboriosa e arrischiata circumnavigazione, emerge il continente luminoso di una musica caratterizzata da arrangiamenti sempre più espansi e articolati, sullo sfondo di una ricchezza di coloriture sonore che vanno di pari passo con un assottigliamento sapiente della scrittura, progressivamente più ossuta, aguzza ed emotivamente pungente, quasi totalmente slegata dalle dinamiche convenzionali di strofe, ritornelli e quant’altro.
In canzoni bellissime come “An Insular Life”, la tonitruante “Black Eyes”, “Castways” o la straordinaria “Runners Of The Sun”, l’ordine segreto ma rigoroso della musica della band, quasi fosse il suono della liturgia imperscrutabile di una preghiera millenaria, in bilico tra Arcade Fire e Radiohead, Talk Talk e Scott Walker, disegna i contorni mobilissimi di sontuosi poemi naturali e rimbombanti canti ossianici che lasciano risuonare in tutta la sua rabbrividente immensità l’urlo di disperazione irreparabile di una Madre Natura ferita e offesa.
Meglio di qualsiasi faraonico Avatar del buonismo hollywoodiano con lieto fine obbligatorio, “The Golden Acipelago” racconta l’agonia di un bellezza deturpata e violata, attraverso canzoni bagnate dalla furia oceanica di profondità antichissime e solo intuibili, incise nella pelle della Terra (di cui sono impregnate) come il tatuaggio rituale di uno sciamano-guerriero maori messo a presidio delle stelle.