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La moratoria ai synth imposta da Stephin Merrit ai suoi gloriosi Magnetic Fields continua e si conclude con il nuovo “Realism”, il gemello “falso” (e infatti proprio “False” doveva intitolarsi) del precedente “Distorsion” del 2008 (confrontate le rispettive copertine dei due album e fate caso al sottile cortocircuito semantico dei loro due titoli, laddove la distorsione designerebbe l’album della verità mentre realismo quello della menzogna). Se il disco precedente appariva tutto costruito su laboriose variazioni stilistiche e ardite esercitazioni retoriche senza fine sui possibili usi e impieghi musicali del feedback e della distorsione, dall’epopea fuzz-nuggetsiana fino ai Jesus And Mary Chain (secondo Merrit gli ultimi inventori di un suono integralmente originale nella storia del pop nientemeno!) “Realism” si configura sin da subito ed in maniera a dir poco programmatica come un album di folk classico dall’attitudine provocatoriamente naif e reazionaria. Eppure, l’intricata e ondivaga genialità di Merritt vince anche stavolta, come in fondo c’era da aspettarsi.
Melodie caramellose dal retrogusto piacevolmente natalizio (ascoltate l’iniziale “You Must Be Out Of Your Mind” e provate a non percepire un desiderio fortissimo e invincibile di neve e tepore casalingo accogliente), campanelli trillanti, cori e lucine da festa di compleanno a sorpresa in una casa abitata solo da inquietanti ancorché educati fantasmi (“We Are Having A Hottenanny” o “The Dada Polka”), un assortimento strumentistico dilatato e cromaticamente inesauribile in cui si impone quasi sempre la pennellata potente e corposa del violoncello di Sam Davol in contrappunto perfetto con gli arpeggi smagati e leggiadri della chitarra di John Woo: tutto questo contribuisce a fare di “Realism” una mirabile arcadia di melodie senza cronologia precisa (da quale tempo provengono o verso quale tempo si indirizzano infatti canzoni come “I Don’t Want To Say”, “Walk A Lonely Road”, “Better Things” o “From A Sinking Boat”?), nella quale la luce annebbiata del ricordo si mescola con filastrocche infantili (degne di Mary Poppins o del Mago di Oz) e scioglilingua stralunati in bilico tra Edward Lear e Jonathan Richman.
Merritt fa insomma centro per l’ennesima volta ma quello che di nuovo colpisce e cattura (come già ai tempi di “69 Love Songs”) è la sua impressionante abilità formalistico-immaginativa che gli permette di mescolare così inestricabilmente realtà e finzione, citazione colta e urgenza di un superiore sentimento, scatenando un libero gioco illusionistico in cui la verità è l’artificio rivelato e l’artificio è l’essenza stessa della più profonda verità, in un rimpallo impazzito tra l’originale e il fittizio che è in fondo l’inganno necessario e bellissimo della musica stessa e del suo mito ingombrante. La grammatica del pop (affrontata qui nella sua variante folk) viene infatti da Merritt manipolata in una serie inesauribile di figure e volubili composizioni che da un lato denunciano la vacuità disincanta del pop stesso e dall’altro ne ribadiscano l’irrefrenabile lampo creatore di illusioni sublimi e memorabili, per quanto fondate su un vuoto di senso incolmabile.
La musica è dunque solo un gioco e una mistificazione fin troppo scoperta, sembra ricordarci questo sottile trattato di “Realism”, una gigantesca bugia o una retorica portatile fatta di frasari inconsistenti e consolatori, dei quali però, pur conoscendone fin troppo bene la pressoché completa inautenticità (o forse proprio per questo), abbiamo bisogno più di qualsiasi impossibile verità.