Share This Article
Scolpire i ritratti ai grandi personaggi della Storia, restituire loro un volto e ridisegnargli lineamenti è compito che grava soprattutto sulle prerogative del cinema e della buona narrativa o, tutt’al più, della canzone d’autore che mira in alto. Ma all’occorrenza anche la semplice pop song radiofonica può essere una lama affilata, e occorre saperla maneggiare con cura: se scappa la mano, è un attimo a sprofondare nella superficialità della peggior “canzonetta”. Ma quando si trova il tocco giusto, possono venirne fuori autentici gioiellini.
Ciò che si ricorda raramente, a proposito di David Byrne, è la sua abilità nel maneggiare queste lame: le sue doti di intagliatore sopraffino e di autore caustico vengono spesso messe in coda ad altre qualità più appariscenti. L’”eclettismo” del suo far musica, per esempio, o l’innato talento nel procacciarsi i collaboratori giusti per ogni nuova idea che gli frulla per la testa. Stavolta è toccato a Fatboy Slim accompagnarlo nel suo ultimo, ambizioso progetto: un ritratto musicale di Imelda Marcos, consorte del fu Ferdinando e, con lui, sanguinosa dittatrice del popolo filippino per gli anni che andarono dal 1972 all’86. La leggenda vuole che l’ex Talking head avesse richiesto alla tiranna, ancora in vita, di cantare lei stessa il copione, ricevendo in cambio uno sdegnato rifiuto che fa tutt’uno con il suo personaggio. Il talento di cacciatore di Byrne dovrò, per così dire, “ripiegare” su una stellare parata di cantanti e cantantesse professioniste, che si succedono – quasi uno a canzone – nelle parti di Imelda, Ferdinando e della nutrice Estella, voce dell’infanzia contadina che la dittatrice vorrebbe dimenticare.
Il soggetto, va ammesso, si presta e non poco. La Marcos è già di per sé un personaggio molto “pop”, nel senso più cinico del termine: la first lady dalle umili origini, bella come un’attrice, che fra un massacro civile e una legge marziale studiata in combutta con il marito, trovava anche il tempo per andare a fare shopping o quattro salti allo Studio 54. Ma il merito di ridisegnargli attorno la cornice giusta – tutta virata ai ritmi discofunk che tiravano proprio in quegli anni – va solo alle quattro mani che firmano il lavoro. Essendo il punto di vista di Imelda quello dominante, di terrore e oppressioni non si fa parola: eppure la Storia c’è, ed è nello spietato understatement che sta sempre sullo sfondo. Elencati in “Please don’t”, i vari Raegan, Mao tse Tung e Castro figurano come lo stesso Mao qualche anno fa sulla tela di Warhol: un’icona pop, decontestualizzata dalla storia ma con le contraddizioni, i soprusi e il sangue di regime rappresi nel dipinto a far da tinte forti.
Fin qui la genialità dell’idea e gli innegabili pregi. Ma c’è un “ma”. Ma se Byrne è così consapevole dei tempi che corrono da parlare con tanta convinzione di “morte dell’album”, allora quale perversione lo spinge a mettere in circolazione un colosso come “Here lies Love”? E sì che a giustificare la durata è soprattutto l’idea, ma qui si parla di due tempi da più di 50 minuti caduno. Sarà pure un “ciclostile” di canzoni, come suggerisce il libretto, ma ben poco nella mole lo separa da un musical o dalla famigerata rock-opera. Nella lungaggine, la bontà dei singoli brani (quasi sempre impeccabili nel loro genere) si dissipa in fretta e assume tonalità da melò. E nell’epoca che mette alla berlina il longplaying, un’opera di questa fatta è destinata ad un oblìo senza possibilità di appello, quando una selezione appena più accurata avrebbe potuto produrre un piccolo capolavoro. Nel manuale d’istruzioni per la perfetta pop song, la capacità di sintesi è uno dei capitoli più importanti, oggi più che mai.