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Parlando di una band entrata ormai nel suo secondo decennio di vita, non dovrebbe esserci più bisogno di alcuna presentazione. Il fatto che “Sisterworld” sia uscito in edizione deluxe con un secondo cd contenente le undici tracce riviste da gente del calibro di Thom Yorke, Alan Vega (Suicide), Carter Tutti (Throbbing Gristle), Tunde Adepimpe (Tv On The Radio), Bradford Cox (Deerhunter) o addirittura i Melvins, non è un caso. I Liars sono una delle band contemporanee più significative.
Il trio newyorkese, dopo aver messo il sigillo sul panorama musicale del nuovo secolo con “They Were Wrong, So We Drowned” e soprattutto col capolavoro “Drum’s Not Dead”, sembrava aver dato una svolta alla sua ineffabile traiettoria. L’album omonimo, pur avendo messo in luce l’ottima vena compositiva (o cantautorale, come aveva azzardato Angus Andrew) e la loro abilità nello scrivere canzoni in quanto tali, era privo di quel fascino concettuale e dell’omogeneità tipica dei precedenti lavori.
Al bivio del quinto attesissimo “Sisterworld” i tre sembrano essere scivolati nuovamente nel tunnel della loro compiaciuta claustrofobia senza sentire il bisogno di tornare a Berlino, la città ispiratrice del loro capolavoro di cui sopra. Quanto tutto ciò sia frutto di un rigetto del frivolo plasticume di Los Angeles, dove l’album è stato partorito, piuttosto che dell’atmosfera decadente di Praga, dove sono state registrati gli inserti orchestrali di brani quali “Here Comes All The People”, è difficile decifrarlo. Ciò che è evidente è la prevalenza di panorami tetri e spettrali. Ritorno al passato? Non esattamente. Una fiera evoluzione, semmai, citando il titolo (“Proud Evolution”) del brano rivisitato non a caso dalla voce dei Radiohead e che meglio rappresenta le sonorità-ponte dal kraut alla no-wave dei “die Brücke” della scena americana.
Brooklyn per una volta non c’entra. O comunque c’entra poco. Il viscerale espressionismo dei Liars si riaggancia piuttosto alla tradizione kraut mitteleuropea adeguandola al presente e oltre. Come solo i più famosi eredi dei Can, i Radiohead. Cui i Liars, sganciatisi definitivamente dagli esordi electro-funk, sono ormai accomunabili. In entrambi una libertà espressiva per certi aspetti anti-accademica finisce per avere esiti da art-rock superiori al rock più accademico (“No Barrier Fun”). Li distingue certamente l’approccio, più composto e oxfordiano nei primi, più irrazionale e a tratti primitivo nei secondi. Certo, in alcuni brani, come nell’etereo alternarsi di ballad e tribalismi di “Drum’s Not Dead”, riecheggiano nenie molto Thom Yorke (“I Still Can See An Outside World”, “Goodnight Everything”). Ma il timbro mannaro di Andrew è inconfondibile, le sferzate da nipoti isterici dei primi Sonic Youth fanno la differenza quanto la novità di latenti sprazzi orchestrali. Si pensi all’introduttiva “Scissor”, gotico requiem per organo che scivola nello stesso inferno tra Germs e no-wave della citata “I Still See An Outside World”. I fantasmi di Throbbing Gristle, This Heat e P.I.L. non sono mai sopiti (“Drop Dead”). A differenza delle stregonerie del secondo album, quali “We Fenced Other Gardens with the Bones of Our Own” o il classico “Broken Witch”, i tre quadrano meglio il cerchio a livello compositivo anche nelle fasi più violente (i post-punk senza compromessi di “The Overachievers” e “Scarecrows On A Killer Slant”). I brani dicono tutto e subito in tre-quattro minuti, senza dilungarsi. Caratteristica già emersa nel precedente album. Con il pregio, però, di scorrere meglio in un continuum metafisico tra chiaroscuri e tinte kirchneriane che dà compattezza concettuale al lavoro. Impossibili da skippare, gli undici brani seguono un lungo filo narrativo, quasi drammatico in senso autentico, dalla prima all’ultima traccia.
Il dipinto conclusivo, l’onirica “Too Much, Too Much” suona come i Velvet Underground suonerebbero nel Terzo Millennio. E ci si chiede, al brusco risveglio dal viaggio sinestetico di “Sisterworld”, cosa sarebbe dei Liars se ci fosse dietro un Andy Warhol o qualcuno di simile.