Share This Article
1930. Pablo Picasso dipinge un nuovo “Le Baiser”. I colori sono molto meno accesi dell’opera di cinque anni prima che porta lo stesso titolo; il cubismo è solo la scusa stilistica per mostrare l’immagine di un uomo e una donna aggrappati l’uno all’altro attraverso le labbra. Non sapresti dire se si stiano baciando o sbranando. E forse tra i due gesti non c’è nemmeno tutta questa differenza.
1967. La Parlophone pubblica “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, il disco in cui i Beatles spiegano al mondo che lo studio di registrazione è il vero strumento della band: ne esce un album lussureggiante, di colori squillanti e diversissimi, una girandola di luci musicali da rimanere abbagliati.
Non è dato sapere se Graziano Staino, l’autore dello scatto di copertina di “Midnight talks”, conoscesse il quadro di Picasso. Certamente, però, gli …A Toys Orchestra conoscono i Beatles. E la scrittura di Enzo Moretto ha deciso di affrontarne il fantasma con decisione, e la scommessa è stravinta.
Durante l’ascolto di “Midnight talks” non sono solo i Fab Four a venire in mente, ma tutta una serie di numi tutelari del pop, tutti affacciati tra le pieghe di quattordici canzoni che riescono comunque a suonare molto personali: il passo leggero di Randy Newman, il pianoforte malinconico dell’Elton John dei primi anni ’70, i grandi autori della bassa fedeltà americana, da Malkmus a Linkous.
Tutti lì, a fare capolino dalle canzoni, proprio come gli artisti e i guru fissati per sempre sulla copertina di “Sgt. Pepper’s”, o come i personaggi delle canzoni dei Toys che compaiono nella dinoccolata parata pop di “Celentano”. Ci sono tutti: Mrs. Macabrette che parla con i suoi gatti, Hengie che torna a casa da sola di notte, il (nuovo) piromane Frankie: tutti a cantare “Yuppi du”.
Eppure, “Midnight talks” non si riduce a un campionario di citazioni: la penna e la voce di Enzo danno alle canzoni una patina nervosa, sanguigna, urgente, che non sempre appartiene al pop degli autori che ricorda. Gli arrangiamenti, poi, fanno il resto, trasformando queste quattordici canzoni in una sorpresa continua, alla quale hanno contribuito non poco Enrico Gabrielli, Andrea “Asso” Stefana e Rodrigo D’Erasmo: valgano ad esempio i due movimenti di “Plastic romance”, una fantasia degna de “La sposa in nero” di Truffaut su una marcetta dixieland squassata dai fiati che finisce per spegnersi, immalinconendosi, in un pianoforte appena sfiorato. O ancora, l’incalzare prog di “Look in your eyes”, o il finale, trionfante di archi e fiati, di “Somebody else”.
Chissà come la band riuscirà a trasportare sul palco tutta questa complessità di suoni; quello che è certo è che da molto tempo non si ascoltava un disco così ambizioso, fantasioso ed emotivo. I Toys possono guardare in faccia i grandi del pop, senza dover abbassare gli occhi.