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Di nuovo tutto come la prima volta.
Bianca e Sierra Casady prendono, nuovamente, spunto da loro stesse. CocoRosie è, come intuito negli ultimi anni, un marchio forte, distinto, riconoscibile. Ed è chiaro, tutto questo, fin da quelli che sembrano dei barriti, nella parte iniziale di “Trinity’s Cryng”.
In “Grey Oceans” le sorelle fanno il punto, riordinano le carte e mettono insieme la sintesi del loro essere indie-folk-tronic-hop.
“Fairy Paradise” rappresenta, ad esempio, un esperimento live non più limitato all’improvvisazione; la partenza della cassa in quattro, con tanto di accostamenti kitsch, spesso dispensata nei concerti e mai azzardata con questa decisione all’interno di un album, suona, adesso, un po’ strana. L’ottima “Smokey Taboo” è un po’ la summa degli elementi che hanno carattterizzato il percorso musicale delle due sorelle. Contiene pressoché tutti gli ingredienti tipici del repertorio: alternanza di metriche provenienti più o meno esplicitamente dal rap, esplosioni di canto lirico, ed una base che include e contempla, armoniosamente, tutto quello che si muove dal folk, all’hip hop, alla musica da camera. Ci sono una filastrocca cantata (“Hopscotch”) ed una title-track che, francamente, non riesce ad essere ricordata tra i momenti migliori del disco. Episodi che possono apparire introspettivi (“R.I.P. Burn Face”, “The Moon Asked The Crow”, “Gallows”), capaci di riportare alle atmosfere meno cariche de “La Maison De Mon Reve” (Touch&Go, 2004), si fanno largo in un lavoro che certamente vive, ancora, di intuizioni presenti negli album passati, ma che ci rassicura nel caso avessimo pensato che il momento buono per Coco e Rosie potesse finire, magari, proprio con l’uscita di “Grey Oceans”.
Il momento buono non è finito. Continua.